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di Giuseppe Panella
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Una breve raccolta, quasi un puro e scabro mannello di ricordi e di sensazioni che provengono dall’intimo, costituisce e sostanzia, irrobustito da un ricorso alle parole profonde dell’inconscio, questo diario di un dolore firmato da Antonio Spagnuolo in memoria della moglie Elena da poco scomparsa. Come dimostra, con parole rese sicure dalla consapevolezza di una lunga stagione di scritture liriche e poematiche, lo stesso autore nella sua Introduzione:
«L’assenza con il suo vortice negativo imprime indelebili incisioni nel subconscio, tali da annullare ogni res extensa, in un naturale sottofondo di angoscia, che riporta i termini del logorio e del pronunciamento. Così la poesia, intrappolata nelle circonvoluzioni, fra realtà materiale e realtà dell’immaginazione, trasforma il livello più alto della mesta riflessione nel possibile desiderio di trascendenza. Ecco che nel fondo mitopoietico della memoria si abbozza quello che sarà il “verso”, musicale e ritmico, per un divenire sul destino soccombente della solitudine»[1].
In sintesi, si tratta della prospettiva di poetica dello stesso Spagnuolo, da lui verificata e trasmessa in moltissime raccolte e plaquette di versi e più volte teorizzata da lui stesso come lavoro diretto dell’inconscio. La poesia, dunque, è ciò che emerge dal fondo del soggetto che scrive e che postula in questo modo un rapporto di comunicazione con il mondo sotto forma di cristalli simbolici di reale che, trasmutati in parole, restano a simboleggiare quel che rimane del passato profondo del loro autore e lo trasfigurano da mero residuo autobiografico ad arte relativa destinata a tutti.
In essa, tempo e spazio non coincidono mai e l’abolizione di queste categorie fondamentali del conoscere permette così di attingere a una categoria superiore dell’esistere che li ingloba e li ridefinisce come momenti di essere del soggetto poetante che esprime in questo modo la parte nascosta, più fonda e fondante di se stesso. Lo si scorge subito in una poesia come Intervalli:
«D’improvviso continua il gioco dei gradini / e si assopisce il tempo delle piccole cose / così il rimpianto del sentiero che non ritroviamo / per sussurri e silenzi. / Lento intervallo del respiro / lento il passaggio imperdonabile / qualcosa è sparita / o cessa d’esistere dentro la realtà. / Finzione / come lo spazio per essere in contraddizione. / E di nuovo m’avvince questo incanto: / una scrittura prediletta del possibile: / nelle tue mani affilate, / la precedenza in cui t’avevo sognata / come t’avessi vista ieri, ma ora sei inganno / una collana d’ambra intorpidita / cercando di carpire ombre impazzite»[2].
Il sogno recupera, nella prospettiva di Spagnuolo, la prospettiva del possibile e dell’immaginario come forma di riappropriazione del passato: ciò che è stato ritorna e si ripresenta con caratteri sempre nuovi e sempre diversi, pur nel rispetto della salvezza ri-emergente di quello che è stato e che non si vuole perdere più. Ciò che si è perso non torna più ma si metamorfizza in forme allotrie e incandescenti, fatte di ritorni, di ripartente, di speranze mai tradite.
Lo stesso avviene in un’altra lirica, Sapori, dove la metafora viene approfondita ancora:
«Quale musica nasce dal passato ? / Il tenero segreto dei tuoi sogni. / Rammenti le vibrazioni del violino / nell’Ave Maria per noi due soltanto, / tremanti alle corde nell’accento / e al singhiozzo trattenuto appena ? / Le mie ingombranti poesie / sarebbero mutate fra le ombre, / fra le croci contorte, / perché le lacrime ancora hanno il sapore / delle illusioni, / le parole cemento ormai sconosciuto. / Se mi fosse concessa un’altra vita, / da vivere, brucerei ogni fiore / e per te profonderei la musica negata»[3].
La sinestesia che scaturisce dal culto della memoria è intensa e languidamente assaporata mentre il dolore del distacco viene (certo solo apparentemente) lenito dalla prepotente insistenza delle sensazioni provate e rivissute nell’oniricità diffusa dell’evocazione.
Il ricordo del tempo passato, infatti, non è fatto solo di suoni o di voci o di momenti tattili e odorosi ma anche dei sapori gustati e vissuti insieme. Qui i sapori sono quelli delle lacrime versate un tempo, in momenti particolarmente densi di pathos, in frangenti singolari in cui una dimensione soffusa di pianto e di malinconia si mescola al piacere di avere accanto (anche se ormai soltanto in sogno) la donna amata (è “l’Ave Maria per noi due soltanto”) e di riascoltare, per riprovarne il conforto, la musica da lei stessa condivisa un tempo con lui in una situazione particolarmente felice.
Le poesie di Spagnuolo contenute in questa sua nuova silloge rimandano tutte, come una fitta tessitura di ricordi, al passato che si congiunge al presente in maniera sotterranea, irta di contraddizioni umane e morali ma sempre impregnata di un sentimento di amore che non muore.
Lo conferma anche un altro testo significativamente intitolato Misteriosa la notte :
«Misteriosa è la notte fuori del tempo, / che sappiamo scomporre, e a volte grida / all’ultimo rosario. / Incredibili note e multiformi gorghi / per ascoltare una poesia che trabocca, / mentre la fiamma è un guizzo di ricordi / incomposti / ove nascondere l’unica promessa / della gioventù spinta al passato. / In questa solitudine d’immagini / passa il mio giorno, / quasi una preghiera disperata. / Ecco ritorno solo, / con il bagaglio enorme dei pensieri»[4].
La poesia è “un guizzo di ricordi incomposti” – la sua sostanza autentica è costituita dalla “solitudine d’immagini” che la compone e che rimanda al passato. In una incredibile densità e compostezza di rilievi legati al ricordo e alla rammemorazione degli episodi di un tempo passato ma che intende ancora risuonare dei “ritmi del lontano presente” (per citare ancora Pamio), Spagnuolo riesce ad affondare nel magma della vita che è stata per annodarne i fili alla luce di una promessa cui non è mai venuto meno e che non vuole rompere. Il giorno gli sembra, però, ormai finito e nella sua scrittura inizia il regno della notte. In essa bisogna rituffarsi continuamente per ripescare quei frammenti del tempo ormai passato che possono da soli rendere ragione di una vita.
In essa, per sempre, risuonano e si accendono i toni del solfeggio di una musica incessante che intendono così ribadire vincoli e desideri, sospiri e frammenti di sogni, oscurità indicibili e lampi di assoluta verità. E’ in questo insieme di suono maturato nelle asperità della ricerca e di discesa agli Inferi della soggettività che si può ritrovare ancora oggi il senso più rigoroso, più veritiero, della proposta poetica di Antonio Spagnuolo: musicalità del verso lirico e scavo nelle interiorità oscure di un inconscio che trabocca si rinnovano e si ritrovano come su uno spartito musicale.
Tutto accade come durante un concerto d’archi o in una seduta iniziatica di solfeggio:
«Solfeggi. Come un solfeggio scandiscono le note / melodie / che sapesti donarmi ancora in vita … / è sempre meraviglia l’immagine trascinata / agli incastri, / o il lamento che interroga le stelle, / per quel mistero che ci avvolge / ostinatamente all’uscio, / ove rinchiudo ogni giorno la domanda / o sfilaccia un incubo, / in contrappunto che brucia la paura. / Senza di te ogni parola è vana»[5].
Ogni volta che scrive poesia Spagnuolo ritrova quella meraviglia che lo spinge a contrappuntare di immagini le sue pagine e a ritrovare, nel suo vasto delirio di poeta, la forza di allontanare incubi, paure o misteri. Una volta venuti alla luce, di essi non resterà che il conforto e la morte non conoscerà la vittoria a lungo sperata (come scrive anche John Donne, ma citando san Paolo, nel momento in cui ricorda la moglie che non è più sulla terra).
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NOTE
[1] A. SPAGNUOLO, Come un solfeggio, Napoli, Kairós Edizioni, 2012, p. 7. Sull’opera di Spagnuolo è sempre di grande utilità il libro di Massimo Pamio, Ritmi del lontano presente. Introduzione all’opera di Antonio Spagnuolo (Napoli, De Dominicis Editore, 1991) che prende in esame e analizza accuratamente le sue opere edite tra il 1974 e il 1990. Con il saggio Come l’ombra di una nuvola sull’acqua (Napoli, Kairòs Editore, 2007), invece, Plinio Perilli rivisita e ricostruisce la genesi dei volumi pubblicati fra il 2001 e il 2007. Ottimi spunti anche nel volume di Giò Ferri, La ragione poetica, Milano, Mursia, 1994.
[2] A. SPAGNUOLO, Come un solfeggio cit. , p. 30.
[3] A. SPAGNUOLO, Come un solfeggio cit., p. 38.
[4] A. SPAGNUOLO, Come un solfeggio cit., p. 13.
[5] A. SPAGNUOLO, Come un solfeggio cit., p. 17.
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I libri degli altri è il titolo di una raccolta di lettere scritte da Italo Calvino tra il 1947 e il 1980 e relative all’editing e alla pubblicazione di quei libri in catalogo presso la casa editrice Einaudi in quegli anni che furono curati da lui stesso. Si tratta di uno scambio epistolare e di un dialogo culturale che lo scrittore intraprese con un numero notevolmente alto di intellettuali e scrittori non solo italiani e che va al di là delle pure vicende editoriali dei loro libri. Per questo motivo, intitolare una nuova rubrica in questo modo non vuole essere un atto di presunzione quanto di umiltà – rappresenta la volontà di individuare e di mettere in evidenza gli aspetti di novità presenti nella narrativa italiana di questi ultimi anni in modo da cercare di comprenderne e di coglierne aspetti e figure trascurate e non sufficientemente considerate dalla critica ufficiale e da quella giornalistica corrente. Si tratta di un compito ambizioso che, però, vale forse la pena di intraprendere proprio in vista della necessità di valutare il futuro di un genere che, se non va “incoraggiato” troppo (per dirla con Alfonso Berardinelli), va sicuramente considerato elemento fondamentale per la fondazione di una nuova cultura letteraria… (G.P)
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