______________________________
di Giuseppe Panella*
.
Terzo romanzo del duo Foschi-Leottadedicato all’ex-commissario partenopeo, ne chiude il ciclo sotto forma di riflessione sulla vita e sul mondo.
Vincenzo Colajacono, da sempre nato e vissuto a Gragnano di Napoli, patria di un infinito numero di pezzature di maccheroni (dalla mafalde ai paccheri alle trofie alle mezze maniche ai fusili e via continuando), è ormai in pensione da tempo. Il suo tempo come commissario di polizia è finito (e questa, infatti, è la sua ultima avventura. Si svolge in Irlanda invece che in Campania ed è un’indagine solo nell’ultima parte del romanzo (e forse neppure allora).
Nonostante la “copertura” da romanzo poliziesco (oggi così di moda e così amata dai lettori che stravedono per i libri – spesso ripetitivi e non sempre riusciti – di Camilleri e Carofiglio) il libro è un solitario canto d’addio, un solo triste ed appassionato, un atto d’amore nei confronti della vita e un gesto di (moderata) fiducia in un avvenire che si prospetta tutt’altro che “verde” (come le alture e i tratti pianeggianti dell’Irlanda in cui è ambientata). E’ l’Irlanda rurale e meridionale che sale verso il Nord, all’altro capo dell’isola e che scavalca la modernità ormai acquisita e turistica di Dublino (ma anche del Connemara o di Sligo e, verso il Sud, della penisola di Dingle cinematograficamente bellissima) e si protende sempre pericolosamente verso il Border insanguinato che prelude all’inferno urbano di Belfast e della sua guerra civile sempre strisciante, endemica, violenta e incomprensibilmente inarrestabile. Il viaggio di Colajacono, arrivato in traghetto a Cork da Roscoff in Francia, sente fin da subito nostalgia di casa: l’acclimatamento è difficile. L’anziano ex-commissario sente nostalgia di casa, della moglie, della pasta di Gragnano:
«Giovanna gli mancava. Sentì il tocco leggero delle sue mani che da qualche decennio, sull’uscio di casa, gli raddrizzavano il colletto della camicia come si fa con uno scolaretto. La rivide mentre gli preparava la valigia e lo convinceva a superare le incertezze iniziali. Finché lui si era deciso: sentendosi una via di mezzo tra Marco Polo e Ulisse, ma senza smanie di mercati o di guerra, per quanto sua moglie sostenesse che i maschi, anche quando si alzano per schiacciare una zanzara, pare che partano in missione bellica… Anzi, visto che in qualche modo l’avevano obbligato, si era imposto di vedere il viaggio come l’occasione per un’apoteosi quieta, buona da raccontare, al ritorno, e poi da ricordare sulla poltrona della vecchiaia. Sono i vecchi che pensano al domani, mica i giovani: al domani che non c’è, si ripeteva sentendosi saggio mentre sbirciava quell’ombra che sapeva sempre più vicina. Poi, grazie a dio – o chi per lui – riuscì ancora a ridere di se stesso» (p. 28).
Poi l’incontro con il figlio Guido che, a differenza dell’altro, Franco, più inquadrato e regular, “medico senza frontiere” dedito al sollievo dell’Africa dalle sue malattie endemiche, è rimasto un’anima di vagabondo, appassionato di musica, avventuroso e sempre un po’ (ma solo un po’) ai limiti della legalità. Il clou della vicenda, però, non è a Monaghan ma a Glenkolumbekille dove si svolgerà un festival musicale organizzato dal figlio e destinato a far conoscere nuovi talenti europei al mondo della musica (siamo ancora nel 1989 e la globalizzazione via Internet è ancora di là da venire). Tutti gli sforzi di Vincenzo di farsi spiegare dal figlio che cosa fa di preciso cadono nel vuoto: è una specie di impresario, dice, di scopritore di talenti ma che cosa faccia di preciso e come si guadagni da vivere non si capisce (né si capirà con precisione fino alla fine):
« Il figlio ci pensò un attimo, accigliandosi, probabilmente senza volerlo. – Sono una specie d’impresario, ma detto così è riduttivo. Organizzo festival come quello a cui stiamo andando, e altre manifestazioni meno chiassose che mescolano musica e letteratura – per esempio – oppure invito artisti stranieri per delle residenze, qui, e poi ho dei gruppi che in qualche modo dipendono da me. Trovo gli ingaggi e loro cacciano una percentuale, coordino il lavoro di una piccola casa discografica…
– E tu lo suoni ancora il sax? Il jazz?
– Tra amici, e neanche spesso. Quel che riesco a promuovere è la musica degli altri. Non sono un asso quando si tratta di vendere me stesso.
– E come si fa a campare, facendo il mestiere tuo, se questo paese è così povero? Mi verrebbe da dire che c’è più bisogno di muratori che di artisti.
Guido rise con gli occhi. L’Irlanda era un posto speciale» (pp. 49-50).
Un paese, infatti, in cui la musica è un momento della vita estremamente diffuso ed eminentemente sociale – dove si canta ai matrimoni ma anche ai funerali e basta una buona pinta di Guinness per sciogliere l’ugola anche ai più timidi e stonati…
Il Festival ha un buon successo: intorno a Guido gravitano strani personaggi che rendono l’atmosfera frizzante e incandescente. Demos Gotti, lettore d’italiano al Trinity College e immischiato in tutte le attività culturali in cui mettere le mani per guadagnare qualcosa in più; il greco Dimitris Giukas, manager di Leila, una ragazza più dotata per il sesso che per le attività canore; la grassa Brunella Di Stefano, l’inquietante e losca manager dei Faraoni, gruppo faentino di poche speranze ma neppure di grandi pretese; Charlotte, la mite e sorridente compagna di Guido… Ci saranno mangiate pantagrueliche al ristorante greco (che prostreranno il delicato equilibrio psico-fisico di Colajacono) e anche in casa di Charlotte, a Donegal, ci sarà une grande bouffe di musica di tutti i tipi e strani movimenti di danaro sottobanco che inquieteranno Colajack senior (come lo chiama disinvoltamente Giukas). Infine ci sarà un morto, trovato a galleggiare sotto le scogliere del paese: Demos Gotti, omosessuale refoulé che probabilmente ha alzato troppo il prezzo del suo ricatto nei confronti di Giukas, reo di essersi appropriato fraudolentemente di fondi non propri.
Il commissario vorrebbe giustizia e che il caso non fosse archiviato troppo frettolosamente come incidente ma questo non importa a nessuno, più che mai a Guido. Le riflessioni finali di Vincenzo ex-poliziotto sono amare e intrise di un Weltschmerz ormai insuperabile:
«Urlava, un ruggito da spezzare le corde vocali, ma il vento ladro lo rese muto, portandogli via pure il dolore, l’angoscia. “Se non possono esserci dubbi né domande, almeno che ci sia concesso di non rispondere più. Anche a noi stessi”. Un abisso cupo scavò un varco dentro di lui, lasciando solo desolazione e silenzio. Un silenzio tagliente, avvelenato di solitudine. Senza via d’uscita» (p. 122).
_____________________________
[Leggi tutti gli articoli di Giuseppe Panella pubblicati su Retroguardia 2.0]
_____________________________
I libri degli altri è il titolo di una raccolta di lettere scritte da Italo Calvino tra il 1947 e il 1980 e relative all’editing e alla pubblicazione di quei libri in catalogo presso la casa editrice Einaudi in quegli anni che furono curati da lui stesso. Si tratta di uno scambio epistolare e di un dialogo culturale che lo scrittore intraprese con un numero notevolmente alto di intellettuali e scrittori non solo italiani e che va al di là delle pure vicende editoriali dei loro libri. Per questo motivo, intitolare una nuova rubrica in questo modo non vuole essere un atto di presunzione quanto di umiltà – rappresenta la volontà di individuare e di mettere in evidenza gli aspetti di novità presenti nella narrativa italiana di questi ultimi anni in modo da cercare di comprenderne e di coglierne aspetti e figure trascurate e non sufficientemente considerate dalla critica ufficiale e da quella giornalistica corrente. Si tratta di un compito ambizioso che, però, vale forse la pena di intraprendere proprio in vista della necessità di valutare il futuro di un genere che, se non va “incoraggiato” troppo (per dirla con Alfonso Berardinelli), va sicuramente considerato elemento fondamentale per la fondazione di una nuova cultura letteraria… (G.P)
Share this:
- Stampa
- Digg
- StumbleUpon