Si narra che un giorno, una giovane donna chiese a Mark Twain quale fosse il valore dei libri. “È inestimabile” rispose lo scrittore americano. “D’accordo, ma a cosa servono?” insistette la donna. “Dipende. Un libro rilegato in pelle è eccellente per affilare il rasoio. Un libro piccolo, conciso, come ne scrivono i francesi, serve a meraviglia per la gamba più corta di un tavolino. Un libro antico rilegato in pergamena è un ottimo proiettile per il gatti. Mentre un atlante, coi suo fogli larghi, può offrirci la carta adatta per sostituire i vetri rotti”.
Questo aneddoto si presta a una riflessione alla luce dei dati più recenti del mercato editoriale. Il 2012 è stato l’annus horribilis dell’editoria, con un calo delle vendite del 6,3%. Ciò nonostante, sono stati pubblicati 61.000 titoli per un totale di 220 milioni di copie stampate. Nel 2013, le vendite dei libri sono ulteriormente crollate e sarebbe semplicistico imputare le cause della disfatta alla crisi economica. Nonostante la recessione, non conoscono flessioni di fatturato gli iPhone o i prodotti informatici, e nemmeno i cosmetici. Allora perché si comprano meno libri e se ne leggono ancora meno? Già, forse perché il paradosso di Twain non è poi così irreale. Forse i libri (la maggior parte dei 61.000 titoli) sono inutili o, nella migliore delle ipotesi, diversamente utili. Tra l’altro, molti volumi sono acquistati per essere regalati e ciò non garantisce che saranno letti, soprattutto i junk books, i libri spazzatura che gli editori pubblicano nella speranza di fare breccia nell’utenza più sprovveduta e superficiale, quella dei lettori occasionali e meno acculturati, che mettono il naso in libreria solo quando si diffonde la notizia che la finta cuoca Benedetta Parodi, il politico presenzialista, il comico di turno o lo sportivo rampante hanno dato alle stampe il loro vangelo.
Di libri se ne vendono sempre meno – solo il 46% degli italiani legge almeno un libro all’anno – e per quelli di cui ci si ricorderà è in uso il contagocce. Ne consegue che il mondo dei libri soffre di dispnea e la letteratura è con l’acqua alla gola. Mi sono posto una domanda inquietante: ma i libri servono ancora? In ogni caso, a chi e perché? La sensazione è che lo zoccolo duro dei lettori intelligenti sia in forte calo. Non è il caso di meravigliarsi, si tratta di una diminuzione fisiologica. Purtroppo, le persone muoiono. Il fatto grave è che i grandi lettori di una volta non sono stati sostituiti adeguatamente. Lo stesso vale per gli scrittori e i dirigenti delle case editrici. Il cambio generazionale ha penalizzato il mercato editoriale, sempre più ondivago e soggetto alle mode e all’effimero, oltre che il popolo dei lettori di buoni libri. Anche il fatto che le librerie indipendenti stiano scomparendo, e con esse la figura del libraio amico che aveva un rapporto confidenziale con il cliente e sapeva consigliargli il libro giusto, ha il suo peso nella decadenza del libro, è una concausa della sua trasformazione da oggetto sentimentale a merce priva d’anima. Non si spiegherebbe altrimenti che nelle classifiche dei libri più venduti nelle librerie uniformate dal franchising figurino prodotti editoriali che mi rifiuto di considerare libri. Sono solo merce dozzinale o dopata.
È il marketing a dirigere le danze. L’arte si è inchinata alle perverse logiche commerciali. Ma torniamo alla domanda iniziale. Personalmente, nella duplice veste di scrittore e lettore, rispondo senza esitazioni. I libri non servono se sono brutti e inutili. Prendiamo i libri di Fabio Volo, ad esempio. Non potrebbero espletare nemmeno le funzioni alternative descritte da Mark Twain. E che dire dell’osannato Saviano, la grande bufala campana, o della volgarissima Littizzetto? Non servono i libri brutti, insulsi e sgrammaticati, i libri che lasciano un cattivo profumo, che ci fanno rimpiangere il tempo in cui gli scrittori corteggiavano la lingua italiana e facevano sognare i lettori. Quando ammiro i volumi della mia biblioteca e ritrovo i nomi dei grandi scrittori italiani del Novecento, da Gadda a Calvino, da Buzzati a Pavese, da Silone a Vittorini, mi sento come colui che avendo viaggiato in contrade meravigliose oggi si ritrova costretto a passeggiare nel cortile di casa. Sono pochi i libri degli autori italiani degli ultimi vent’anni che stimo degni di stare accanto alle opere dei mostri sacri. Per questa ragione, sospetto che i libri non servano più. Possiamo farne a meno. In fondo, non c’è nulla che non sia già stato scritto. E poi, non viviamo forse in un’epoca in cui la parola scritta soccombe di fronte all’immagine e al suono? Se Dante Alighieri fosse in vita e decidesse di presentare un nuovo capolavoro non riempirebbe gli stadi, come fanno le rock star, né incasserebbe come un film di Checco Zalone o un cinepanettone di Natale. Eppure… Appartengo alla razza di chi considera i libri fondamentali e insostituibili. Sono come i personaggi di Fahrenheit 451 e se in un futuro non auspicale il Grande Fratello decidesse di mettere al bando tutti i libri, ne imparerei uno a memoria per preservarlo. A proposito, questo romanzo di fantascienza di Ray Bradbury non finisce mai di stupirmi e colmarmi di amore per i libri. Vi si legge una frase paradigmatica: i libri “rivelano i pori sulla faccia della vita.”
Purtroppo, viviamo in una società edonistica, sedotta dall’estetica del vuoto, dove farsi le unghie finte conta più della sapienza e frequentare una palestra è più gratificante della ginnastica mentale. È forse questo il motivo per cui la gente non sente il bisogno di leggere un buon libro e tutt’al più acquista quelli mediocri pompati dai mass media? La risposta è in Fahrenheit 451. “La gente comoda vuole soltanto facce di luna piena, di cera, facce senza pori, senza peli, inespressive”. Non so cosa succederà in futuro e dove andrà a parare l’industria editoriale per evitare il karakiri. Quel che è certo, a mio modesto parere, è che dei cattivi libri non sappiamo che farcene ma i buoni libri ci servono, eccome se ci servono. Avremo sempre bisogno di nuovi libri capaci di emozionarci e arricchirci, di sottrarci alla mediocrità e banalità del quotidiano. Cosa distingue il libro buono da quello inutile? Fermo restando che il libro di valore è scritto bene, potrei rispondere citando ancora una volta Ray Bradbury. “I buoni scrittori toccano spesso la vita, i mediocri la sfiorano con la mano fuggevole, i cattivi scrittori la sforzano e l’abbandonano”.
Quando mi chiedono come riconoscere il valore di un libro e di chi l’ha scritto, rispondo che è facile. Dobbiamo chiederci se le parole che abbiamo letto e la storia che abbiamo seguito, ci hanno toccato, semplicemente sfiorato oppure sedotto e abbandonato. Le vicende che ci hanno emozionato e arricchito, lo stile che ci ha riconciliato con la bellezza dell’espressione linguistica, gli autori che vorremmo avere come amici… sono questi gli elementi che devono farci amare un libro e riconoscerlo come necessario. Altrimenti, possiamo tranquillamente farne a meno. Ecco la mia risposta, in definitiva. I libri servono ancora, purché ci aprano la mente e riscaldino il cuore, purché ci rendano migliori. Servono a chi sente il bisogno di sapere, vedere e scoprire, cioè non smettere di crescere. Nei panni di Mark Twain potrei aggiungere: una pigna di libri solidi, di sostanza, può fungere da basamento per sollevarci da terra.
Pubblicato da Giuseppe Bresciani