Indagini anche recenti evidenziano, in modo molto chiaro, i motivi per i quali, in periodo di crisi, esistono aziende che, pur appartenendo a settori in sofferenza, continuano a fornire risultati positivi. Queste differenze non sono casuali ma presuppongono l’esistenza di due fattori: da un lato gli imprenditori sono stati capaci di creare un’organizzazione motivante e dall’altro la maggioranza dei dipendenti di quelle aziende hanno messo in atto comportamenti che creano valore. E' allora logico porsi la domanda: ma serve licenziare?
Sorprende che imprenditori, consigli di amministrazione, amministratori delegati e presidenti delle maggior parte delle aziende non abbiano ancora capito che i licenziamenti sono, frequentemente, inutili. I licenziamenti inutili sono tali poichè, sulla lunga distanza non producono alcun effetto ne sui valori delle azioni ne sulla produttività del personale.
Ricordo a questo proposito un'indagine compiuta su 16 grandi corporation, fra le prime 100 della classifica di Fortune che, tra il il 1982 ed il 1988, avevano tagliato più del 10% della forza lavoro. Due anni dopo per 10 di queste 16 aziende, il valore delle azioni era sceso del 17% rispetto alla media del mercato. L'ipotesi che la riduzione della forza lavoro, attuato con licenziamenti collettivi, produca un miglioramento dei risultati è basata sulla convinzione che la produttività dei dipendenti rimasti migliori, potendosi eliminare le persone meno efficienti; ciò non è sempre possibile ed, inoltre, è forte il rischio che quelli rimasti, spesso demotivati, diminuiscano le prestazioni e i più competitivi lascino l'azienda.
Le alternative più valide ai tagli generalizzati sembrano essere l'adozione dei patti di solidarietà, il maggior ricorso al part time e una riduzione della parte variabile della retribuzione.