di Cristiano Abbadessa
Siamo praticamente a metà del festival. Per una rassegna al debutto e perciò priva di riferimenti storici, con novanta eventi in calendario e un flusso travolgente di iniziative e aggiornamenti non è possibile, come talvolta usa in questi casi, fermarsi a tracciare un primo provvisorio bilancio; che si tirerà invece alla fine, e con una certa calma, per confrontare dati oggettivi e sensazioni, riscontri certi e aperture di opportunità. Qualche impressione, però, si può provare a proporla fin da ora.
Nel blog del festival potete leggere i resoconti degli appuntamenti già passati in archivio e restare aggiornati su quanto accaduto attraverso il racconto di chi c’era. Dai reportage fotografici ci si può anche fare un’idea della partecipazione numerica, molto diversa a seconda degli eventi, con qualche successo previsto e qualche difficoltà messa in conto, qualche flop inaspettato e qualche exploit inatteso. Rari picchi e strapiombi nel quadro di una media abbastanza costante, che mi è sembrata buona e incoraggiante. Ma verrà il momento di tirare le somme e capire cosa ha funzionato e cosa no, sia nel quadro generale sia in alcune situazioni specifiche (quelle che, in positivo o in negativo, sono andate in controtendenza rispetto alle attese).
I brevi resoconti sul web riescono, come ovvio, a dare solo parzialmente l’idea del dibattito e dello scambio tra i partecipanti, cioè del vero e proprio aspetto culturale. Bisognerebbe trovare una formula non tediosa per mettere tutti gli interessati a parte di alcune riflessioni proposte nel corso degli incontri: serve uno strumento (e dal festival stesso qualche idea, anche tecnologicamente parlando, può venire) per ampliare il dialogo sui contenuti e tenerlo vivo oltre il momento. Personalmente ho partecipato a quattro eventi, due dei quali riguardavano libri da noi editi; ma devo dire che i due dialoghi tra coppie di scrittrici di Autodafé (Minetti-Paccini sul tema di comunità e partecipazione, Blanchetti-Petrovich sulle città visibili e l’incontro fra culture), pur riguardando opere che conosco pressoché a memoria e autrici con cui mi sono già confrontato sui contenuti, hanno toccato tanti e tali temi da avermi lasciato con un bagaglio di domande, interventi e notazioni che mi sono riportato appresso a fine serata, essendo mancato il tempo materiale per affrontare tutto. Figuriamoci quante curiosità insoddisfatte e quali necessità di approfondimento rimangono inevase nel partecipare a eventi il cui oggetto è meno conosciuto.
Una nota positiva, però, mi sembra si sia già consolidata e meriti una sottolineatura: riguarda il valore aggiunto offerto, grazie al “contenitore” del festival, da molti luoghi che hanno ospitato gli eventi. Mi spiego meglio. Una piccola casa editrice come la nostra è abituata, per le presentazioni e gli incontri, a contare sulla partecipazione di un pubblico che è in parte formato da persone molto vicine alla casa editrice stessa e in altra parte da persone molto vicine all’autore: a chi “gioca in casa” spetta il compito di portare più pubblico. Più o meno pubblicizzato che sia, è assai difficile che l’evento richiami altre persone, e l’apporto dato in tal senso dal locale che ospita è di norma praticamente nullo. In due anni, a questa regola vi è stata una sola vistosa eccezione, legata a una situazione del tutto particolare e comunque collocata in ambito provinciale. Nelle metropoli, la maggiore o minore fama del luogo scelto hanno inciso poco o niente.
Negli appuntamenti del festival, per quel che ho visto, le cose sono andate ben diversamente. Si trattasse di biblioteche pubbliche, di centri culturali, di caffè letterari, di locali a vocazione artistica o di librerie con un forte insediamento territoriale, molte delle sedi prescelte hanno offerto un valore aggiunto in termini di promozione, pubblicizzazione, e infine di pubblico che si è presentato proprio per la fiducia riposta in queste realtà ben conosciute, scommettendo su autori, editori e artisti di cui invece sapeva poco. A riprova, la lettura della cartina di tornasole che evidenzia come alcuni flop imprevisti si siano verificati, non a caso, laddove ad altre latitanze si è aggiunto lo scarso insediamento nel tessuto sociale del territorio da parte della struttura ospitante.
Credo che il fatto di essere inseriti in un contesto culturalmente vivo, variegato e interattivo abbia fatto da sprone a tanti gestori e responsabili di “luoghi sociali”, che si sono attivati come raramente avviene per il singolo evento occasionale, magari realizzato in collaborazione tra due soggetti che mai più si incontreranno. Il festival ha aperto in questo senso un importante canale di comunicazione e ha moltiplicato gli accessi al pubblico dei lettori, in alcuni casi in maniera anche vistosa. Si tratta, come ovvio, di un patrimonio da non disperdere.