Per non essere andata al concerto dei Blur a Roma, Demonio Albarn si è vendicato ricordandomi che la pallavolo è uno sport pesante, soprattutto se si fanno 6 set che arrivano ai 25 e se non si gioca alla volley da almeno 4 anni.
Mi sento in colpa per non aver fatto la doppietta Blur (Milano-Roma) e, quindi, sto pregando ogni DIO esistente e non (Paul Weller, George Harrison, Ray Davies, Keith Moon, Keith Richards, Pete Townshend, Ian Curtis e David Bowie) di farmi andare al Berlin Festival per rivedere la mia band preferita.
E allora mi tocca scrivere solo del concerto dei Blur in quella città che odio più di me stessa: Milano.
Il 28 luglio si parte in autobus da Bologna con LA MIGLIORE compagnia da concerto che si possa mai avere, con un pochino di alcol in corpo e con la terribile ansia di non vedere bene il concerto perché si arriva tardi e, quindi, si è troppo indietro.
Bene o male si arriverà sotto a Graham Coxon, in seconda fila, e poi tra Graham e Damon, sempre tra le seconda\terza fila: voglio ringraziare con tutta me stessa quei tre cari ragazzi che mi hanno aiutata ad avanzare e che hanno dato tantissime botte a tre scope-in-culo che non volevano che la gente ballasse (andate a vedervi i concerti dei onesticazzi e non spaccate le balle).
Nonostante tutto si arriva, si avanza, si poga, si salta, si balla, si perde la voce, si prende una distorsione a un piede e ci si emoziona, ancora, a un concerto dei Blur.
Sono consapevole del fatto che questo sarà un concerto MOLTO differente da quello di Hyde Park di (quasi) un anno fa: l’atmosfera è diversa, non ci sono 89999 persone dietro di me e la scaletta prevede un’ondata di singoli.
Macchissene: quello che conta è il risultato.
Nella scaletta ci sono le due perle “Caramel”, con tutte le sue distorsioni ed improvvisazioni, e “To The End”, sulla quale mi chiedono pure: “ma cosa aspetti a piangere?”.
Le lacrime arrivano inevitabilmente su “This is a Low”, “Under the Westway”, “For Tomorrow” e “The Universal”, le stesse canzoni sulle quali mi stavo strappando vesti-capelli-anima a Londra un anno fa (in più c’erano anche “No Distance Left to Run” e “Tender”).
I Blur sono dei ventenni sul palco, dato che sono ancora in grado di tenere un concerto vivo, senza troppe pause e non mostrano un segno di vecchiaia: Damon rischia di spaccarsi un ginocchio a furia di acrobazie, ma regge e la sua voce migliora sempre di più a forza di sostenere concerti; Graham Coxon è l’amore della mia vita ( anche se aspetto ancora una “You’re So Great” live) e l’assolo finale di “Beetlebum” potrebbe essere una canzone a parte dei Blur; Alex James è scalzo sul palco e il suo basso arriva fino in stazione centrale; Dave Rowntree si violenta la batteria (È UN MOSTRO).
I cori, anche questa volta, danno maggior espressività e sensibilità alle canzoni. E ringraziamo anche il tizio vestito da Milky che sale sul palco durante “Coffee & Tv” e ci fa divertire tantissimo.
Ma quelli che voglio ringraziare più di tutti sono proprio i BLUR che, nonostante qualche canzone spezzata\suonata davvero velocemente, mi fanno sentire bene, libera e felice e di tutto il resto CHISSENEFREGA.
Non riesco nemmeno a spiegare quanto sia bello rivederli, anche se l’occasione è davvero diversa e se le canzoni mi sembrano passare troppo velocemente: è tutto bello e, questo, certe persone non possono capirlo.
C’è quella grinta di Damon Albarn su “Popscene” che scatena il panico: mi mancavano davvero tanto la sua presenza scenica e i suoi saltelli.
Di Graham Coxon ho già parlato del mio amore nei suoi confronti: amo anche le sue maglie a righe e il suo modo di sistemarsi i capelli, ma quando suona la chitarra vedo pure la madonna.
E ci tengo a ribadire una cosa: quello che mi fanno sentire i blur è davvero inspiegabile e nessuna altra band ci riesce. E quando un concerto LASCIA IL SEGNO in questo modo, non c’è altro da aggiungere.