Si hanno le giornate scandite dal canto del muezzin e si scrive un diario di viaggio sedute sui soffici tappeti della Moschea Blù, scalze, con la pretesa di voler fotografare i volti più interessanti, compresi quelli delle donne celati dietro lunghi caftani neri, che lasciano scoperti solo dei grandi occhi, neri anch’essi, assai più eloquenti di quelli delle donne occidentali e sfrontate, senza aver messo in conto che ogni volto è interessantissimo ed esprime la serenità, la dignità, la gioia, ma anche le contraddizioni di questo Paese diviso in due parti, una asiatica ed una, per così dire, occidentale. E gli occhi delle donne velate che raccontano dell’amore per il proprio uomo e per la propria famiglia, che in dieci giorni trascorsi in mezzo a migliaia e milioni di persone, non è mai capitato di vedere o sentire qualcuno urlare, litigare, alzare le mani, inveire, rubare, sgridare i propri o gli altrui figli, passare avanti in una fila, importunare signore e quant’altro è normale vedere nella propria città. Queste dame dignitose, orgogliose ed elegantissime nelle loro palandrane scure, che viene da chiedersi a chi sono destinati allora tutti quei monili d’oro, d’argento e di bronzo, cesellati a mano, spesso copie di quelli originali dell’impero ottomano e bizantino, e quei chilometri di stoffe colorate e intessute di fili luminosi e cangianti che i moderni Alì Babà mostrano con orgoglio a quella fiumana di gente che va, inarrestabile, come i loro cuori.
Mi sono innamorata di questi figli di Ataturk, con grossi baffi e modi gentili, che hanno una città pulita e un cestino ogni tre metri, un sistema di linee tranviarie e mezzi di trasporto modernissimi, economici e confortevoli che dovremmo imitare, un nuovo areoporto, forse l’unico al mondo intitolato ad una donna, l’aviatrice Sabiha Gökçen, la prima donna al mondo a pilotare un velivolo da combattimento nel 1938, che trattano le loro e le altrui donne con estremo rispetto, che vestono i ragazzini come piccoli sultani in particolari giorni di festa, che hanno il wireless free nei parchi sotto le Moschee e grossi cani cani randagi con una specie di orecchino di plastica rossa a segnalare che l’animale è seguito dal servizio veterinario comunale e gatti socievoli con ciotole sempre piene di acqua e crocchini, che ti invitano ad entrare nei loro negozi grandi quanto un armadio, traboccanti di merci coloratissime, di olii profumati ma anche no, di occhi blu come quelli incastonati in molti visi di ragazzi bellissimi e fiabeschi, anche se vendono solo kebap, dolci come miele e antichi come la più antica delle tradizioni turche, quella dell’ospitalità totale e dovuta a chiunque si avvicini con un sorriso, ma anche no.
E attraversare il Bosforo, saltellando allegramente dall’Asia all’Occidente, con pochissime lire turche, su navi comode, rilassate e rilassanti, sbirciando ad ogni porto in un palazzo imperiale, ottomano, residenza di sultani, che racchiude un harem, scale di cristallo, fontane con ninfee e giardini con pavoni, hammam intarsiati d’oro e ancora turchese e mille altri tesori, sorseggiando ancora Ayran fresco e salato, come fosse elisir di lunga vita e forse lo è.
Grazie all’amico Safiettyn, che parla un buon italiano, sorride sempre e assomiglia a Danny de Vito ma anche ad Al Capone, solo un po’ più rotondo, che mi ha messo a disposizione il suo ufficio, il suo computer, i suoi impiegati, i suoi tappeti e tutta la sua gentilezza. Grazie a Jamil che non mi ha fatto fare la fila al Topkapi, mi ha portato in un villagggio di pescatori in carrozza e probabilmente sta ancora aspettando che io torni indietro per un altro apple tea. Grazie a Sebastian che mi ha invitato nel suo Aghia Sofia Bufet e alla terza rakya non ha voluto che pagassi il conto e a suo figlio che mi ha insegnato a fare i tulipani e le peonie con i tovaglioli di carta. Grazie ad Alì, che mi ha portato nel più antico hammam, nascosto dietro la Moschea Blù dove qualcuno si è preso cura del mio corpo, strofinandolo con sapone, schiuma profumata e olio dalla testa ai piedi, soprattutto su questi ultimi. Grazie al Boss dell’Anatolyan kitchen del Gran Bazaar che mi ha offerto Ayran con la panna in un mestolo ottomano e del kebap d’agnello. Grazie ad Ahmethakim, uomo di grande cultura e grande pancia, che sa parlare di qualsiasi cosa in qualsiasi lingua, che usa portasigarette da quando sui pacchetti ci sono foto di polmoni marci. Grazie a Selçuk, nato nel negozio di lampade e ottoni del padre trent’anni fa, che con uno sguardo e poche parole mi ha fatto sentire la preferita del Sultano. Grazie al ragazzo dello Star Holiday Hotel con occhi di giada che alle due di notte, ora locale, ha soddisfatto la mia incolmabile sete, mescolando uno yoghurt denso e cremoso con acqua e sale e rendendolo simile all’ayran. Grazie al boss del medesimo hotel che apparecchiava colazioni a base di cetrioli, uova sode, pomodori, olive, sciroppo d’acero, crema di sesamo, formaggio acido, miele, cioccolata, pane con semi di papavero, thé, Nescafé e cocomero, per la mia grossa, grassa colazione turca. Grazie al boss del negozio di loukumie e dolcissimi a base di pistacchi e noci, per la chiacchierata sulla situazione socio-economico-cultural-politica della città. E grazie ad Abdullah, uomo della Mesopotamia, padre felice di quattro figlie, con le dita della mano destra bruciate e un cuore grande e grosso quasi quanto lui, che con infinita pazienza e dedizione mi ha portata dall’areoporto di Ataturk a quello di Sabiha Gokçen, perché avevo sbagliato direzione, saltando su e giù da tram, metrobus, pullman, taxi, spingendo la mia enorme valigia, senza imprecare neppure per un secondo. E grazie a tutti voi che ho incontrato, anche solo per un attimo, sui tram, sui bus, sulle metro, sulla funicolare, sui traghetti, per mare e per terra, nei mercati e nelle Moschee, per aver dato calore e colore alla mia vacanza e non avermi fatto mai, neppure per un istante, sentire sola.
Mamma li turchi che non fumano più come turchi perchè non vogliono più farsi male.
Si vive un sogno turchino e turchese qui ad Istambul, Turchia, Mondo.