I meriti della scuola italiana

Creato il 01 aprile 2014 da Rodolfo Monacelli @CorrettaInforma

La scuola e la società italiana

L’Italia ha sperimentato in un secolo breve quello che altri popoli hanno vissuto in un tempo molto più lungo e strutturato. Le risorse che ha usato per giungere a rappresentarsi come un Paese veramente unito sono state le risorse tipiche dell’infanzia e dell’adolescenza di un uomo: l’apprendimento, la scoperta del mondo, lo svilupparsi dell’intelligenza in tutte le sue forme. La scuola è stata decisiva perché è stata la vera agenzia di unità sociale e civile: mentre il paese si divideva per classi e per ideologie, la scuola, pur riflettendo i rapporti di forza all’interno del paese, ha avuto un’energia endogena e una vitalità che le hanno consentito di disallinearsi rispetto alla storia politica o a quella economica. Se non fosse così, alla luce delle attuali politiche di restringimento dell’investimento pubblico, essa avrebbe dovuto entrare in una crisi ben più profonda di quella in cui si trova, grave ma non mortale.

Attingendo alle riserve tipiche del lavoro femminile e a una tradizione pedagogica fondata sul gruppo più che sull’individuo, il tessuto scolastico italiano resta sano. La scuola italiana è stata lenta e conservatrice quando veniva preteso che si piegasse docile a mutamenti radicali e non convincenti, mentre è stata innovatrice e creativa quando le si chiedeva di moderare il passo e di restare tranquilla e subalterna. Il vero problema, semmai, è che è troppo uniforme – potremmo dire che è fin troppo “unitaria” – ed è incapace di anticipare i nuovi bisogni di uguaglianza e di giustizia della società o, meglio, di sostenere attivamente quelle sue parti che rischiano di essere marginalizzate. Non solo i poveri di beni, ma anche quelle fasce della popolazione che sono interessate da un fenomeno di proletarizzazione al di fuori di ogni coscienza di classe: giovani precari, piccoli borghesi, artigiani, piccoli imprenditori del mondo agricolo, fasce urbane di periferia, immigrati senza cultura ecc. Questo processo di mobilità sociale al rovescio, dall’alto al basso, sta lambendo proprio il ceto insegnante che per i tagli non è più in grado di assicurare al suo interno un ricambio generazionale e per il quale sta scomparendo la dignità del lavoro.

Ceto improduttivo per alcuni, ceto residuale per molti, riserva etica di un popolo purtroppo solo per pochi. La povera scuola nazionale è nata con sulle spalle un handicap di almeno 25 punti di analfabetismo in più degli altri paesi: con bilanci che fin dal 1861 erano platealmente inadeguati alla missione e, soprattutto, con il vincolo di un ordinamento, la legge Casati, che era manifestamente conservatore. Malgrado ciò, noi oggi possiamo tranquillamente dire che la scuola italiana ha un suo profilo preciso – è inclusiva, tollerante, solidale e ai livelli iniziali anche molto esperta pedagogicamente – ed ha assolto a tutti i grandi compiti che le competevano. Lo ha fatto con sulle spalle il peso della tradizione millenaria greco-romana dell‘humanitas che si era trasformata e modernizzata a furia e misura che si allontanava, espandendosi nel cuore dell’Europa, dal centro da cui era partita e dove era stata raccolta e curata dalla Chiesa.

L’Ottocento in cui si inizia a contare l’unità italiana era dovunque, forse meno che in Italia, un altro mondo rispetto a quello dell’antichità. Nell’antichità l’educazione era ordinata alla formazione dell’uomo adulto, sulla base di un progetto di società che riconosceva il carattere naturale dell’autorità e le responsabilità oggettive, non ancora personali, di gruppi, di ceti, di ordini chiusi. In epoca moderna al centro dello sviluppo pedagogico fu posto l’uomo-bambino, la società giovane, la scienza nuova. L’Italia pedagogica, culla dei collegi e di molte scuole nuove, ha partecipato alla definizione della forma educativa moderna come ha potuto, sprovvista di un centro propulsore univoco, non più in mano alla Chiesa. Quando si è costituito lo stato unitario esso ha dovuto pensarsi come uno Stato educatore perché, alla luce di come l’unificazione era avvenuta, non aveva altra legittimazione forte che quella di dover finalmente creare, con lo strumento più incisivo e nel modo più rapido possibile, un Popolo.

Studiare l’Italia dalla prospettiva della scuola è istruttivo sia dal punto di vista storico, sia da quello civile, per entrare nel merito del cambiamento possibile e della riforma della società italiana. L’istruzione è un processo che attiva tutte le difese e i metabolismi della società. Ormai abbiamo capito che ciò che si vive in silenzio o a macchia di leopardo nella scuola dilaga poi nella società. Anche il sindacalismo italiano deve molto alle lotte dei maestri agli inizi del Novecento senza le quali non si sarebbe sanata, con la statalizzazione del 1911, la piaga di un’istruzione elementare obbligatoria in balìa della povertà e della disorganizzazione di migliaia di comuni; deve molto alle discussioni culturali degli insegnanti medi che hanno creato le premesse per una riforma della scuola come quella del ministro Gentile del 1923 che, pur adottata dal fascismo, nelle sue premesse era molto più nazionale che fascista e perciò durò ben oltre la caduta del regime. La scuola deve molto al movimento degli studenti e degli insegnanti del decennio a cavallo del Sessantotto perché quel protagonismo seppe riequilibrare la crisi di quello operaio e seppe garantire allo Stato un supporto fondamentale nella crisi degli anni Settanta ed Ottanta. Nella fase della fine della Repubblica dei partiti la scuola, forte di circa dieci milioni di soggetti attivi tra studenti, insegnanti e personale tecnico amministrativo, ha saputo rispondere alla crisi delle istituzioni repubblicane con soluzioni innovative in materia di lavoro cooperativo, di condivisione educativa e di rispetto per la dignità del sapere, senza le quali l’Italia non avrebbe retto la lunga transizione di cui non si vede ancora la fine.