Mi dirigo verso l’uscita dell’aeroporto Imam Khomeini con il visto in mano, ancora rossa in faccia per i complimenti ricevuti al momento di rilasciarmi il visto, che misti all’emozione fanno sì che il mio ingresso in Iran avvenga così: con la faccia paonazza, il foulard in testa mezzo storto, la sciarpa penzolante e una calza pungente su e una giù: una meraviglia. A cui però la donna in chador che ispeziona le valigie ai raggi x non fa sicuramente caso, perchè intenta a guardare con occhio torvo le mie due borse: “Cos’hai lì dentro?”. “Il mio computer”, rispondo fingendo distacco. “E qui?” indicando l’altra. “La macchina fotografica”. Domande fatte per intimorirmi, visto che aveva appena avuto modo di vedere il contenuto delle mie due borse sul suo schermo. Si alza dalla sedia, mi viene incontro e mi chiede minacciosa “Da dove vieni?”. “Italy”. “Ok, allora puoi andare”.
In Iran, avrò modo di constatare che Italy è una parola magica, un lasciapassare o un argomento per attaccare bottone, a seconda dell’occasione. Comunque, un passaporto fortunato. Raramente mi sono sentita protetta dalla mia nazionalità; qui lo sono, e me ne rallegro.
E ora via, usciamo di qui che voglio vedere l’Iran: voglio vedere questi estremisti islamici, questo popolo ostico, duro e i suoi segreti, il cielo cupo e le donne piegate al volere degli uomini. Sono pronta a tutto.
Non ero pronta per niente invece, e me ne rendo conto quando vedo Amirhossein venirmi incontro, entrando dalle porte che si aprono al suo passaggio: un bel ragazzo sereno, con i capelli scuri lunghi fino alle spalle, abbigliato in stile grunge, un sorriso smagliante e la risata contagiosa. Ci siamo conosciuti sul sito Couchsurfing e non l’avevo mai visto prima. Uno scambio fitto di e-mail per qualche settimana, l’istinto mi diceva che mi potevo fidare, e mi è venuto a prendere all’aeroporto chiedendo un permesso dal lavoro, come fossimo amici da sempre. Questo è stato il mio primo impatto con l’Iran: l’accoglienza di Amir.
Usciamo dall’aeroporto, camminiamo verso il parcheggio, saliamo sulla sua automobile, mi libero della sciarpa troppo calda e si parte. Solo ora alzo gli occhi al cielo e ne resto abbagliata: è di un azzurro abbagliante tanto è luminoso, l’aria è cristallina, il sole tanto alto che che mi sembra di essere tornata a Torino. Il cielo cambogiano è basso, umido e leggero, quello omanita è turchino e sempre uguale. Quello iraniano è come il popolo che ci vive sotto: altero e maestoso. E’ un cielo che osserva. Un cielo schiacciato, ma ancora in piedi.
Una musica dance in farsi accompagna la nostra corsa in autostrada e mi sento felice, una sensazione che conosco molto bene perchè già provata in Albania: la felicità di sentirsi stranamente a casa in un luogo sconosciuto. Accanto a noi sfrecciano macchine sporche di polvere e terra, guidate da uomini con la barba sfatta o i baffi e la sigaretta in bocca o nella mano appoggiata al finestrino aperto. Di fianco o dietro, un amico o l’intera famiglia, le donne col foulard sui capelli, e tutti mi guardano mentre Amir mi dice con dolcezza “Rimettiti il foulard!” perchè mi casca di continuo. Mi guardano tutti, e tutti mi regalano un sorriso: non cè uno straniero a pagarlo oro.
Ricambio i sorrisi felice, mentre osservo meravigliata i monti a nord di Tehran che si stagliano bianchi di neve sul cielo azzurro, i dipinti enormi di visi barbuti sui muri dei palazzi (“Ma quello è Ahmadinejad?” chiedo. Amir sorride: “No, è un martire iraniano”) e le mille bandiere dell’Iran piantate in ogni dove a ricordarmi che mi trovo in Iran, casomai l’avessi già scordato. Gli autisti guidano come matti, sorpassano da destra, si infilano nella strada senza aspettare, frenano, sbucano e fumano, il tutto senza mai imprecare: non ci sono regole, perchè arrabbiarsi? Macchine vecchie come il cucco che a vederle l’Oman scintillante è ormai un lontano ricordo, non vedo alcun dettaglio arabo in giro (ma chi ha detto che l’Iran è come l’Arabia?). Donne al volante, occhi che parlano. E poi finalmente lui, la Guida suprema iraniana, l’ayatollah Ali Khamenei, che insieme all’ayatollah Khomeini compare di continuo davanti ai miei occhi su cartelloni, dipinti, poster e ponti.
Sono ormai rapita dall’Iran quando entriamo in città, questa splendida e contradditoria Tehran avvolta da una foschia leggera che sembra nebbia ma in realtà è smog puro che intasa i polmoni. Non so spiegare questo amore a prima vista: come l’amore per un uomo o una donna, anche quello per un Paese arriva sempre così: quando proprio non te lo aspettavi.
Con Amir il mio primo giorno a Tehran