13 film. Refn, Soderbergh, Martone, Tinto Brass, Oliver Stone, Mamoulian, Cédric Kahn. La coppia Cruise-Kidman. E Bruce Lee.
World Trade Center, Rai Movie, ore 21,15.
Valhalla Rising, Rai 2, ore 2,00.
Niente velo per Jasira, Rai Movie, ore 23,24.
Uscito qualche anno fa nell’indifferenza generale, è invece un piccolo film che merita di essere recuperato in tv. Titolo italiano fuorviante, anzi sbagliato, perché qui non si tratta del tormentone velo sì/velo no, ma di altra storia. Jasira vive tra New York e Houston, è di padre libanese (ma cristiano, non musulmano) e di madre irlandese, ha 13 anni ed è incasinata. La sua pur parziale origine mediorientale la espone ai pregiudizi e ai razzismi quotidiani. Stretta tra il rigore paterno (ma il velo non c’entra niente) e la iperpermissività del mondo che le sta intorno, si dà alla scoperta del sesso e, come si diceva una volta, del proprio corpo, incappando goffamente in strani incontri e piccole disavventure. Film di iniziazione e formazione in un contesto di trame e relazione extra e interetniche. Minimi ma non trascurabili scontri di civiltà che ne fanno un film assolutamente contemporaneo. Regia di Alan Ball, lo sceneggiatore di American Beauty. Con Summer Bishil, Aaron Eckhart, Toni Collette, Maria Bello. Tratto dal libro Beduina, edito in Italia da Adelphi.
Cuori ribelli, Iris, ore 21,10.
Film del 1992 che consacrò su grande schermo (widescreen! 7o mm!) la storia pubblica e privata della coppia Tom Cruise-Nicole Kidman, cominciata due anni prima sul set di Giorni di tuono. Qui alla regia c’è il sempre ottimo (e sottovalutato) Ron Howard. Un period movie sull’immigrazione irlandese nell’America di fine Ottocento, vista attraverso le vicende e le vicissitudini di un lui e una lei. Ricostruzione di un pezzo di storia americana e, insieme, storia di passioni. Da rivalutare.
Il cliente, Rete 4, ore 23,10.
Un ragazzino braccato dalla mafia che lo vuole morto. Sa troppo, ha visto troppo, si occuperà di lui un’avvocatessa. Uno dei film più famosi e meglio riusciti tratti dai romanzi di John Grisham. Con Susan Sarandon. Dirige Joel Schumacher.
L’urlo di Chen terrorizza anche l’Occidente, Rai 4, ore 23,33.
L’occasione per chi fan non è di Bruce Lee di farne la conoscenza e superare qualche pregiudizio. Terzo grande film suo, e uno dei pochi autentici con marchio di garanzia, molti sono infatti rimontaggi di spezzoni o assemblaggi con interpolazioni improprie. Del 1972, diretto dallo stesso Lee, L’urlo di Chen terrorizza anche l’Occidente è ambientato a Roma, dove il nostro deve difendere un amico proprietario di ristorante minacciato da una gang mafiosa, nel senso della triade. Un pretesto perché Lee possa dispiegare la sua leggendaria abilità in numeri di arti marziali complessi e eleganti come coreografie di Busby Berkeley. Arabeschi nell’aria da lasciare senza fiato. C’è anche un quasi esordiente Chuck Norris. Indimenticabile le scene di combattimento al Colosseo. Action purissimo, ma anche con robusti slitamenti qua e là nella commedia. La Roma secondo il cinema di Hong Kong è ovviamente un coacervo di cliché, non così fastidiosi comunque. Poi c’è Bruce Lee e tanto basti.
Che – Guerriglia, la7, ore 0,00.
Seconda parte del dittico biografico realizzato nel 2008 da Steven Soderbergh sulla figura di Che Guevara, cercando di restituirne filologicamente vita e storia al di là del mito. Si prendono in considerazione stavolta i suoi ultimi tre anni, quelli compresi tra 1965 e fine 1967. Si comincia con la partenza di Guevara dalla Cuba saldamente castrista alla volta della Bolivia, dove fonderà il suo movimento guerrigliero nel nome di Simon Bolivar, con l’obiettivo di innescare la rivoluzione armata nel continente latino-americano. Sappiamo com’è finita. Benicio Del Toro è il Che, in una immedesimazione che non è solo psicofisica. Occhio, c’è anche (oltre ad attori come Matt Damon e Franka Potente) quell’Edgar Ramirez che rivedremo poi nel Carlos di Olivier Assayas (e più recentemente in Zero Dark Thirty di Kathryn Bigelow). Il film di Soderbergh, pur lanciato con gran pompa a Cannes, dove a Del Toro andò pure il premio come migliore attore, non ebbe l’esito sperato e si inabissò nell’indifferenza del pubblico. Forse arrivava fuori tempo massimo. Alle platee popcorn globalizzate ormai di un biopic su un eroe rivoluzionario non importava granché. Da riconsiderare però nell’ambito della filmografia, incredibilmente eclettica e aperta, di Soderbergh.
Luci nella notte, La effe, ore 23,00.
Film del 2004 amatissimo dai critici parigini e dai nostri di nuova generazione, quelli usciti dalle cinema. Cédric Kahn è uno dei migliori autori francesi e qui si conferma, dopo La noia e Roberto Succo. Jean-Pierre Darroussin e Carole Bouquet sono marito e moglie in partenza verso il Sud per una vacanza. Incroceranno un evaso. Sarà un viaggio nel buio della mente e nel terrore. Tratto da Georges Simenon e destinato a diventare un classico. Da non perdere.
Coco Chanel & Igor Strawinsky, La effe, ore 0,55.
Incredibilmente Jan Kounen, già regista dell’ultra pulp Dobermann con la coppia Bellucci-Cassel, si converte nel 2009 al period drama raccontandoci la storia vera e di vero amore tra due colossi del Novecento, Coco Chanel e un Igor Stravinsky a Parigi in fuga dal bolscevismo. Lui è il grandissimo (lo adoro) Mads Mikkelsen, lei è Anna Mouglalis, una delle più belle donne del cinema di oggi. Vederla nel film di Garrel dato a Venezia 2013, La Jalousie, per credere.
Amami stanotte, Rete Capri, ore 21,00.
Raro. Prezioso. Ca vedere. Cinema d’antiquariato, certo (è del 1932!), però che cinema, e che grazia, che incanto. Dirige l’armeno-americano Rouben Mamoulian – Sangue e arena, La regina Cristina tra gli altri – con tutta la consapevolezza e il disincanto degli illustri emigrati dall’Europa variamente martoriata in direzione Hollywood. Una commedia che è anche musical, un ibrido allora piuttosto nuovo e innovativo che aprì la strada a futuri capi d’opera firmati Minnelli, Donen, ecc. Un plot lieve e gassoso come lo champagne tratto da, come spesso capitava allora al cinema americano e anche a quello italiano, da una commedia ungherese, stavolta dell’illustrissimo Ferenc Molnar. Un uomo di non eccelso livello sociale (di mestiere fa il sarto) si ritrova per caso tra gli invitati in un castello. Perderà la testa, ricambiato, di una principessa. Sarà ovviamente un amore contrastato e complicato, e intanto si canta e si danza. Con due specialisti del cinema con musica, Jeannette MacDonald (la vedova allegra di Lubitsch) e Maurice Chevalier. E c’è Myrna Loy, una delle migliori attrici da commedia di sempre.
Il matrimonio del mio migliore amico, Mtv, ore 21,10.
Ruffianissima commedia del 1997 dagli ingranaggi ben oliati che fu un sensazionale successo al box office e che continua a mantenersi più che guardabile e godibile ancora oggi: anche se un po’ troppo sentimentale, e troppo poco coraggiosa e cinica per essere davvero all’altezza dei grandi modelli del passato – George Cukor, Billy Wilder, Howard Hawks. Julianne (una Julia Roberts allora all’apice, ma con il sorriso da fidanzata d’America già pericolosamente avviato a diventare il ghigno di oggi) ama ancora l’ex Michael, e quando viene a sapere che lui si sta per sposare con l’ereditiera Kimmy viene assalita da irrefrenabile crisi di gelosia. Quel matrimonio non s’ha da fare, giura a se stessa, ma per impedirlo ha solo qualche giorno. Ingaggia nel piano di sabotaggio l’amico gay George, fingendosi sua fidanzata onde suscitare gelosia e ri-voglia di acchiappo in Michael. Equivoci, controequivoci, colpi di scena, rovesciamenti di fronte. Poi tutto si aggiusterà come si deve aggiustare e l’amore trionferà. Daloghi scintillanti e qua e là perfidi e acuminati come nell’âge d’or della sophisticated comedy, con slittamenti verso il queer e il camp tenuti comunque entro il livello di guardia. Il film se lo ruba Cameron Diaz quale fidanzata di Michael, una Diaz agli esordi che mostra di avere la stoffa della star, e ancora di più se lo ruba Rupert Everett interpretando irresistibilmente l’amico gay. Per lui fu anche l’occasione di fare coming out trasformandosi da quel momento in modello di riferimento gay planetario. Come dimenticare la scena di lui che canta I say a little prayer for you innescando un travolgente canto collettivo.
La chiave, Cielo, ore 0,15.
Incredibile che lo passino sulla tv in chiaro. Incredibile se si pensa all’aura maledetta e scandalosissima che si porta dietro dai tempi della sua apparizione su grande schermo (correva l’anno 1983, e fan trent’anni e passa). Film epocale, per più versi. Per il suo autore Tinto Brass, che schiantò il box office e si affermò come signore dell’erotismo nel famoso immaginario collettivo, e mica solo italiano. Per come inserì la rappresentazione del sesso, e il sesso esplicito o quasi, nel cinema medio-mainstream. Per il lancio di Stefania Sandrelli, una che veniva da Germi-Bertolucci-Scola-Pietrangeli, quale opulento simbolo del sesso nazionale e oggetto di ogni possibile sogno e voglia di possesso. Ispirato a un romanzo di Tanizaki, una storia morbosa assai ambientata nella Venezia, territorio brassiano per eccellenza, ai tempi del fascismo e dell’entrata in guerra dell’Italia. Protagonista la strana coppia formata dall’inglese direttore della Biennale (però!) e dall’albergatrice veneziana sua moglie. Lei legge il diario in cui lui racconta le proprie fantasie sessuali (dopo che lui ha lasciato in giro volutamente la chiave di dove l’aveva rinchiuso perché la moglie vi accedesse), lei comincia a scriverne uno suo. Il risultato è che si dan da fare entrambi, e insieme, per scatenare al massimo il proprio desiderio e le proprie voglie. Tormenti e piaceri, e si sfiora voluttuosamente il kitsch con scene ormai leggendarie come lei che fa pipì sul selciato. Trapela un senso di verità, comunque, perché Brass al sesso come via verso l’estasi crede davvero. Sandrelli assoluta dominatrice. Con lei Frank Finlay e Franco Branciaroli. Cameo di Ugo Tognazzi.
Noi credevamo, Rai 5, ore 23,13.
Miracolo, un film italiano che avvince e coinvolge, anche se dura quasi tre ore e mette in scena complicate storie risorgimentali. Mario Martone azzecca il miglior risultato della sua carriera scavando nel nostro inconscio collettivo e ponendoci di fronte alla nostra incerta identità nazionale.
Noi credevamo che fosse una boiata pazzesca e invece no, ci siamo ricreduti. Il film risorgimentale di Mario Martone è meglio di quanto ci aspettassimo (tranquilli, questo noi non è l’ignobile e tronfio pluralis maiestatis, per “noi” intendo noi – e siamo in tanti – che diffidiamo di certo cinema italiano, anzi di quasi tutto, in special modo quello pensoso con messaggio incorporato; noi che quando un amico ci dice dài, andiamo a vedere un film italiano, subito ci scatta l’impulso di scappare, di metter mano alla pistola, di bruciare il cinema, di inventarci la febbre che non abbiamo per starcene a casina nostra).
Miracolo, non pesano nemmeno le quasi tre ore di Noi credevamo, che pure di scene spettacolari ne ha ben poche, dove gli sbarchi dei garibaldini (non a Marsala, la volta dopo in Calabria, prima della battaglia dell’Aspromonte con il regio esercito) sono fatte con tre barchette e sullo sfondo un veliero che assomiglia all’Amerigo Vespucci prestata alla produzione per carità di patria, dove le battaglie sono risolte con tre soldati dietro un muretto, quattro spari da fucile per bambini (quando ai maschietti si regalavano le armi giocattolo, adesso non si può più), dove gli scontri sono un indistinto corpo a corpo nel semibuio onde non mostrare la scarsità di figuranti, che costano troppo. Benché il film di Mario Martone affronti qualche decennio di Risorgimento, dunque un bel pezzo cruciale di storia patria, dai primi moti mazziniani fino all’Unità d’Italia avvenuta e compiuta, l’epica latita, sicuramente per motivi di budget ridotti (le scene di massa costano), forse anche per scelta narrativa e stilistica: Martone probabilmente si trova più a suo agio con le schermaglie verbali e anche verbose dei congiurati, dei ribelli, dei complottardi di varie fedi e colori piuttosto che con i grandi affreschi. Certo, in tempi che le masse le puoi inventare e moltiplicare in digitale (Il signore degli anelli non ha insegnato nulla?), qualcosa in più Dio mio si poteva fare.
Ma insomma, va abbastanza bene lo stesso, anche se le battaglie scarseggiano (il massimo del minimalismo lo si ha nell’insurrezione savoiarda degli inizi, dove si vede un carbonaro, dicasi uno, che si muove nella nebbia poi viene sparato e cade a terra: c’est tout) e le soddisfazioni per gli occhi sono tutte affidate alla scelta delle location, dei costumi, degli interni (però quelle pareti scrostate e quelle porte crepate di casa Belgiojoso, Visconti non le avrebbe mai mostrate in un suo film). Siamo lontani dalla grandeur, non dico del Luchino di Senso e Il gattopardo, ma perfino del Blasetti di 1860 e del Roberto Rossellini un po’ goffo di Viva l’Italia!, quello con il Garibaldi più pantofolaio e antieroico che si sia mai visto. Perfino Allonsanfàn dei fratelli Taviani, tanto per rimanere su film di tema risorgimentale, sembrava al confronto un Eizenstein, un Cecil B. De Mille, un David Lean.
Ma è inutile confrontare questo Noi credevamo con altri film sulla nostra epopea ottocentesca, perché l’Italia è cambiata e crede molto di meno di allora (del tempo in cui si fecero quei film) a se stessa, il senso di appartenenza nazionale si è corroso, il paese è più che mai fratturato e non sa come affrontare l’imminente centocinquantenario della sua unità. In un clima di questo genere Martone non poteva che rinunciare al trionfalismo, che dell’epica è parente, e percorrere un’altra strada, come ha fatto.
Innanzitutto, azzecca lo sceneggiatore, il Giancarlo De Cataldo di Romanzo criminale, che tratta la materia con un approccio non dissimile da come aveva affrontato le gesta della banda della Magliana. Il Risorgimento di Noi credevamo è visto e raccontato attraverso tre ragazzotti testosteronici ansiosi di buttarsi nella mischia, dar prova della loro virilità, menare le mani e farsi largo nella vita. Solo che, a differenza del Dandi o del Freddo, ed è una bella differenza, intendiamoci, loro si dannano in nome di una Grande Causa, l’Italia non ancora fatta e che si ha da fare a qualunque costo, anche della propria vita. Ma certe pur vaghe analogie, soprattutto nella prima parte del film, così arrembante e vitalistica, ci sono e fanno di Noi credevamo uno strano quanto appassionante noir risorgimentale.
Domenico, Angelo e Salvatore sono tre amici che, disgustati dalle repressioni borboniche, da un angolo delle Due Sicilie (siamo nel Cilento) decidono di passare nelle fila dei mazziniani: repubblicani, italianisti, unitaristi, nazionalisti. Il film li segue dalla loro adesione carbonara degli inizi e dagli entusiasmi giovanili fino all’età adulta e matura (di due dei tre, perché uno all’età matura non ci arriva), e attraverso di loro incontriamo cospiratori, nazionalisti repubblicani e nazionalisti monarchici, perfino italianisti borbonici, attentatori, esuli, nazionalisti polacchi, signore inglesi attratte dai mori e barbuti ribelli mediterranei, aristocratiche milanesi in combutta con i cospiratori, e poi Garibaldi e i garibaldini, i piemontesi di Cavour e Vittorio Emanuele che poi alla fine saranno i veri vincitori e loro sì, l’unità d’Italia riusciranno a farla davvero, tipi magari anche gretti, ma che saranno gli unici con il fiuto e il senso della storia e che sapranno cogliere l’attimo fuggente, l’irripetibile occasione del si fa l’Italia ora o mai più. Mica come Mazzini che è andato avanti per decenni a inventare sommosse ovunque mandando al massacro la meglio gioventù senza mai concludere nulla.
Una storia grande e poderosa, niente da dire. Una materia enorme, complicata, però abilmente dipanata in fase di sceneggiatura. Il farsi di una nazione, nientemeno, con le infinite giravolte della storia, i protagonisti e le comparse, le manovre politiche, le congiure, le alleanze siglate poi infrante e tradite. Un gran teatro che si segue per tre ore senza mai guardare l’orologio e scusate se è poco: per un film italiano poi, per un film storico, per un film che non nasconde le sue ambizioni intellettuali. Martone dopo aver curato lo script con De Cataldo, e posto dunque solide basi all’opera, ha scelto saggiamente di riunciare all’epopea magniloquente e di concentrarsi sui personaggi, dipanandone le vicende e disegnandoli nei minimi dettagli, scegliendo con cura gli attori (tutti perfetti, e si fa fatica a privilegiare qualcuno, anche se io direi Valero Binasco, che è il luciferino, invasato Angelo, un po’ più su degli altri) e facendoli recitare magnificamente. Fa insomma quello che sa fare meglio, senza l’arroganza di cimentarsi su terreni che non gli appartengono, e questo senso del limite è uno dei motivi della buona riuscita di Noi credevamo.
Non tutto funziona allo stesso modo. Il film dà il meglio nella prima parte, quella con i tre protagonisti ancora giovani e pieni di illusioni, frementi e ribollenti di aspettative e di passioni, e nel raffigurare il milieu filomazziniano carbonaro-cospirazionista con il suo radicalismo anche sanguinario, il fanatismo ideologico, la paranoia complottistica. Questa prima parte è una discesa molto ben condotta agli inferi della psicopatologia e dei dogmatismi rivoluzionari, del settarismo, delle cellule segrete sempre sull’orlo della scissione e della lotta fratricida. Facile, ma inevitabile, citare i Demoni di Dostoevskij, e impossibile non pensare a tutte le degenerazioni sanguinarie di tutte le successive piccole o grandi rivoluzioni, quella bolscevica in testa, naturalmente. Mazzini non ne esce benissimo, fa la figura del cattivo maestro che maneggia ideali impossibili nell’esilio, anche se non tanto dorato, di Londra mentre i suoi ragazzi qua e là per l’Italia tentano l’insurrezione e finiscono regolarmente annientati. Non sono uno storico, non voglio entrare nelle polemiche pro o contro Mazzini che il film alla sua presentazione veneziana ha innescato, però la lucida analisi delle degenerazioni complottarde-rivoluzionarie così come emergono da Noi credevamo mi pare azzeccata.
Il film scende di quota più avanti, quando gli amici diventano grandi e si passa alla fase matura e conclusiva non solo delle loro esistenze ma dell’ondata risorgimentale. Gli attori cambiano (entra in scena Luigi Lo Cascio come Domenico, e devo dire che occupa il film con un carisma che non avrei immaginato). Si incomincia a parlare di illusioni perdute, rivoluzioni tradite, che è poi un topos di ogni film che metta in scena cellule cospirative. L’Italia viene fatta, ma dai poco amati piemontesi che approfittano, più lesti degli altri, del momento favorevole, sanno tessere le giuste alleanze internazionali, utilizzano (manipolano?) Garibaldi e la sua reconquista del regno borbonico. Crispi (Luca Zingaretti) incarna il passaggio dalla fase combattente a quella istituzionale realista e senza più illusioni e non per niente Domenico/Lo Cascio in una visione a occhi aperti immagina di ucciderlo in quanto traditore e liquidatore degli ideali di gioventù.
Qui il film inciampa e asseconda fin troppo quella che è ormai la vulgata dominante sul Risorgimento, che poi è una vulgata antiunitaria e antirisorgimentale, secondo la quale quella dei Savoia sarebe stata una guerra di conquista del Meridione sotto la bandiera ipocrita dell’unità d’Italia, una guerra coloniale che avrebbe assoggettato il Sud fino ad allora fiorente al Nord padrone e dominatore. Anche se Martone e De Cataldo non si mostrano teneri all’inizio con i Borboni, che dipingono senza incertezze come retrivi e fanatici despoti dell’Ancien Régime, alla fine del film si inventano il personaggio dell’industriale tessile impoverito cui mettono in bocca una spiega illuminante: “Prima dell’Unità in Campania avevo una fabbrica di sete, le più belle sete di tutta Europa. Ci lavoravano cento persone. Adesso coi piemontesi è finito tutto, ho dovuto chiudere”. Si stava meglio quando si stava peggio sotto Franceschiello e Sofia? Il duo Martone-De Cataldo resiste a lungo alla tentazione, però poi ci casca.
Noi credevamo del resto è film sudista e meridionalista, che il Risorgimento lo vede da giù, dall’Italia mediterranea (i personaggi del Nord sono pochissimi e più approssimativi, meno curati degli altri: la milanese patriottarda e cospiratrice Cristina di Belgiojoso, esule a Parigi e finanziatrice e amante di bei carbonari, è ben interpretata dalla vibrante Francesca Inaudi, solo che quando apre bocca e senti quell’accento laziale a noi milanesi vien voglia di sparare allo schermo). Serpeggia in Noi credevamo (titolo ripreso da un libro di Anna Banti) il rimpianto che l’Italia non sia stata unificata partendo da Sud e andando verso Nord. Solo che la storia è andata nella direzione contraria e i rimpianti non servono a molto. Naturalmente l’ultimissima parte è tutta dedicata ai massacri fatti dai piemontesi nel Meridione post-unitario con l’alibi (sostiene il film in accordo con certa storiografia) della guerra al brigantaggio. Il film si cosparge di cadaveri disseminati ovunque, tra i ruderi delle case bruciate, nei letti dei torrenti, nelle gole tra i monti: location di grande suggestione, tra le cose più centrate del film, che ci restituiscono dell’Italia meridionale un’immagine cupa, ombrosa, introversa, fantasmatica, stregonesca, poco solare e poco mediterranea. Ora, io non sto a entrare nella controversia se l’Unità d’Italia sia stata un vantaggio per il Sud oppure una sciagura, come ormai la gran parte dei meridionali e molti intellettuali sembrano pensare. Dico solo che è meglio che l’Italia sia stata fatta e che sarebbe stato peggio non farla. Per dirla tutta, certo revisionismo antirisorgimentale e criptoborbonico (non nuovo, peraltro: chi ha un’età si ricorderà il libro Proletari senza rivoluzione di Renzo Del Carria, il film Bronte, la canzone Pontelandolfo degli Stormy Six che erano tutto un “maledetti piemontesi”) mi pare l’ennesimo travestimento della retorica meridionalista, di quella cultura del lamento che al Sud non ha mai portato bene. Faccio mia la frase che pronuncia in Noi credevamo una Cristina di Belgiojoso ormai matura e disillusa ma non arresa (Anna Bonaiuto) a proposito dell’Unità d’Italia: “L’albero è stato piantato, anche se le radici sono malate”.
Il tema dell’identità nazionale dev’essere fortemente sentito dal pubblico, visto il successo abbastanza inatteso che sta avendo Noi credevamo. Visto soprattutto il colossale successo di un altro film che affronta, anche se in chiave di commedia apparentemente svagata, lo stesso tema, Benvenuti al Sud (ambientato nel Cilento esattamente come la prima parte di Noi credevamo). Ce la tiriamo da cinici, non crediamo all’unità d’Italia, non cantiamo l’Inno di Mameli, però accorriamo quando un film prende di petto la questione e ce la sbatte in faccia. In fondo, abbiamo uno spasmodico quanto continuamente frustrato desiderio di sentirci italiani, come s’era ben capito peraltro dalle bandiere tricolori gioiosamente sventolate in occasione delle vittorie pallonare (purtroppo lontane) della Nazionale.