Serata formidabile, per quantità e qualità. 14 film. Due di Sidney Lumet, e poi Godard, Béla Tarr, Sydney Pollack, Richard Linklater, Claude Chabrol, Todd Haynes, Ron Howard, Isabel Coixet, e molti altri, e molto altro.
Onora il padre e la madre di Sidney Lumet, Iris, ore 23,08.
Power di Sidney Lumet, Iris, ore 21,05.
Cinderella Man di Ron Howard, Rai Movie, ore 21,15.
Io non sono qui di Todd Haynes, Rai 5, ore 23,21.
Trattasi dell’anomalo, iper sperimentale biopic su Bob Dylan realizzato qualche anno fa dal Todd Haynes di Lontano dal paradiso e di Mildred Pierce, tra i migliori talenti del cinema americano. Che stavolta destruttura il tradizionale racconto biografico e lo scinde in vari pezzi, per l’esattezza sei, ognuno dei quali affidato a un attore diverso. Ne derivano più Dylan, sei incarnazioni di Dylan tra loro anche molto lontane per aspetto e per età, ce n’è perfino una interpretata (benissimo) da un’attrice, Cate Blanchett. Operazione ad alta concettualità, quasi brechtiana nel suo programmatico straniamento, che sottolinea il talento multiforme di Dylan e forse la sua inafferrabilità, le sue mutazioni continue di uomo e musicista. Una scelta che però ha finito con il penalizzare l’immediata fruibilità del film, che difatti non è stato premiato dal pubblico come si sperava. Film più intelligente e interessante che riuscito. Cast stellare: oltre a Cate Blanchett, Christian Bale, Richard Gere, il povero Heath Ledger, Charlotte Gainsboug, Michelle Williams. Presentato in concorso a Venezia 2007, dove ha vinto il premio speciale della giuria. A Cate Blanchett la Coppa Volpi come miglior interprete femminile (in un ruolo maschile!).
L’uomo di Londra di Béla Tarr, Rai 3 (Fuori orario), ore 1,10.
Béla Tarr, il suo nome oggi (e ancor più da quando, dopo Il cavallo di Torino, ha deciso di non girare più film) equivale a cinema estremo, iper autoriale, cinema che ripudia ogni compromissione con il mercato, ogni vellicamento dei gusti del pubblico-massa, per farsi pura visione e cammino e ascesi verso quella cosa che chiamiamo arte. Cinema che anche per la sua mole – i film dell’ungherese Tarr possono durare ore e ore, son fiumi che scorrono inesorabili e lenti – si dichiara minoritario, assaporando la propria diversità e facendosene scudo e vanto. O lo si ama o lo si odia. Io sto tra quelli che lo amano, eppure mi rendo conto di come le sue opere così aristocratiche e poco compiacenti possano suscitare reazioni di rigetto. L’uomo di Londra, del 2007, non è nemmeno tra i suoi più noti, pur essendo stato lanciato a Cannes, dove peraltro non ottenne nessun premio. Incredibilmente tratto dal romanzo di un narratore puro come Georges Simenon, quanto di più lontano si possa immaginare dal cinema inesorabile, austero e perfino punitivo (e ampiamente antinarrativo) del gran magiaro. Il quale, nel suo uso del bianco e nero, pieno di squarci e lampi espressionistici e ombre sinistre, si colloca nella scia dei più radicalmente ascetici autori europei, da Dreyer ad Antonioni al conterraneo Miklos Jancso, forse un suo maestro, soprattutto nell’uso (e abuso?) del piano sequenza, del take infinito senza tagli. Questo L’uomo di Londra, prima che per ciò che racconta, è sbalorditivo per come lo fa. Per blocchi sovrapposti e allineati, se ricordo bene una dozzina, ognuno girato in un solo piano sequenza, in un’esibizione virtuosistica di abilità da lasciare senza fiato, come se assitessimo alle giravolte rischiose di un acrobata sospeso sopra le nostre teste. Di una perfezione e sapienza anche tecnica come oggi credo pochissimi siano in grado di fare (forse Scorsese, ecco). Mirabolante. Siamo in un qualche porto francese, di notte. Dopo che un treno ha scaricato tra fumi e fuliggini i suoi passeggeri quasi al limitare dei docks, vediamo un uomo aggredito, una lotta intorno a una valigia che supponiamo essere preziosa (e difatti è piena di soldi), un uomo del porto che dall’alto osserva la scena. Lui, un povero everyman senza risorse e con famiglia a carico, deciderà di imposessarsi di quella valigia e svoltare. Sarà invece l’inizio dei suoi guai. Anche perché da Londra arriva un tosto investigatore deciso a far luce sulla faccenda. Un torvo dramma di avidità, meschinità, appetiti inconfensabili, inganni, doppi e tripli giochi, puro Simenon insomma. Che però per Bela Tarr è solo un pre-testo per un esercizio che chiamare di stile sarebbe riduttivo, piuttosto esercizio e sperimentazione del linguaggio-cinema e della forma-cinema, spinti fino ai loro limiti estremi e al punto di esplosione (e di non-comunicazione con lo spettatore). Con squarci sul porto e su una livida Francia entre-deux-guerres che son citazione e omaggio al gran cinema di Carné di quel periodo. Operazione altamente concettuale, che rasenta l’astrazione e il gioco di pure forme. Tra gli attori, quasi tutti unghersei, c’è anche Tilda Swinton quale popolana francese (e che in francese recita), in uno dei suoi ruoli camaleontici che la rendono irriconoscibile (e un giorno o l’altro si dovrà pur dire qualcosa di questa sempre più accentuata tendenza al fregolismo e alla mimetizzazione di Tilda).
Momenti scelti delle Histoire(s) du cinéma di Jean-Luc Godard, Rai Movie, ore 1,35.
Vero, va in onda a un’ora impossibile, perdipiù di domenica notte, quando il lunedì incombe già minaccioso. Però si può andare di videorecorder. E chissà, forse qualcuno sceglierà di inoltrarsi verso il martirio cinefilo con questi 81 minuti di puro Godard, anzi di Godard distillato. Uno di quelli che han fatto il cinema, e non dico altro, perché io l’ho sempre amato e son di parte, tutto comprendo e tutto gli perdono, anche le avventiure più folli e arischiate (per lui e, soprattutto, per lo spettatore). Questa è la sua riduzione a misura umana, neanche un’ora e mezza, delle sue monumentali Histoire(s) du cinéma, dieci anno di lavorazione a partire dal 1986, otto video, otto capitoli, a comporre una personale visione (e allucinazione) della storia del cinema. Mica un’ordinata e assennata riconsiderazione di quelle che son stati le tappe fondamentali, i film-svolta, gli autori capitali, piuttosto la composizione di una trama filmica in cui spezzoni e immagini di opere maggiori e minori, di attori e autori, si incrociano con altri linguaggi, musica, arte, documenti. Godard per mettere insieme questo suo condensato e riassunto prende un po’ di minuti da ciascuno degli otto episodi, e si inventa un’altra opera ex-novo. Godard è Godard è Godard.
Last Days di Gus Van Sant, La Effe, ore 22,55.
La Effe non per niente lo manda in onda a manetta questa settimana in cui si ricorda Kurt Cobain a vent’anni dalla scomparsa (era il 5 aprile 1994). Difatti, il film di Gus Van Sant racconta gli ultimi giorni di qualcuno che assomiglia molto a Kurt Cobain prima del suicidio, ma che non può essere lui per via di problemi legali e diritti vari. Tra i film più radicali di Van Sant, regista diviso tra l’autorialità pura e il compromesso con Hollywood. In questo suo eterno pendolarismo, stavolta si colloca sul versante ‘piccolo film di piccolo budget’ con linguaggio arrischiato. In Last Days si esagera in piani sequenza, il marchio di fabbrica da Antonioni in poi del cinema altissimo, ma anche, all’opposto, in camera fissa (sono i due poli di una dialettica incessante del cinema d’autore). Blake, il rocker protagonista interpretato dal biondo (siamo in un film di Gus Van Sant, no?) Michael Pitt già visto nel bertolucciano The Dreamers, si aggira catatonico nei boschi, mentre agente, compagna, amici e perfino un detective lo cercano disperatamente. Attenzione, la donna di Blake è Asia Argento (e non dite che fa la parte di Courtney Love, sennò la vedova Cobain se la prende di brutto). Freddo e atono, un film che dispiace a molti e piace a pochi (io mi colloco nella seconda categoria, dunque ne consiglio caldamente la visione).
Il cavaliere elettrico di Sydney Pollack, Class Tv, ore 20,40.
Chi se lo ricorda più? La tv riesuma un film molto anni Settanta che già allora non ebbe il trionfale esito che tutti si aspettavano e che poi si sarebbe inabissato in una vita sotterreanea e carsica. Rispunta adesso, e non conviene perderselo. Uno dei film della Hollywood liberal di quel decennio, altrimenti detta New Hollywood, con venature anarcoidi antisistema (ma con profonde radici nell’America individualista della frontiera), interpretato da una coppia di attori essa stessa simbolo di quel tempo di divismi politicamente engagé, Robert Redford e Jane Fonda. Con dietro la macchina da presa un regista intriso di liberalismo East Coast quale Sydney Pollack. La storia: un campione di rodeo che ha vinto molto, ma ormai stanco e sul viale del tramonto, accetta la proposta di un’azienda di cereali di pubblicizzare i suoi prodotti esibendosi per le contrade d’America in sella a un cavallo di gran razza. Ma si rende conto che quello stallone l’hanno imbottito di droga per farlo star buono e che lo show è pura finzione. Figuriamoci. L’onesto anche se acciaccato e declinante cowboy non ci sta, e scappa portandosi via l’animale. Si scatenano i media, una giornalista (Fonda, ovvio) si mette sulle sue tracce, lo incontra, si innamora, lo appoggia nella sua ribelione. Fuggiranno insieme con tanto di stallone per le strade dell’America profonda, inseguiti da polizia e telecamere. Qualcosa tra L’asso nella manica di Billy Wilder e Sugarland Express di Steven Spielberg. Una storia così emblematica da rasentare qua e là fastidiosamente la parabola politically correct. C’è tutto: l’eroe solitario e onesto, i cinici affaristi, la manipolazione mediatica. Tutto e troppo. Però la confezioni è impeccabile, Pollack sa il fatto suo, Redford & Fonda una coppia da lustrarsi gli occhi (erano già stati insieme negli anni Sessanta, da giovani, in A piedi nudi nel parco). Da vedere.
From Hell – La vera storia di Jack lo Squartatore di Allen e Albert Hughes, Mtv, ore 21,10.
Tratto da una graphic novel di Alan Moore, una ricostruzione tra nebbie, vapori e oscurità in puro steampunk della Londra vittoriana con incorporato l’assassino seriale più famoso di sempre. Con Johnny Depp detective che, dopo tanti film con Tim Burton, si ritrova perfettamente a suo agio nelle più lugubri atmosfere e fa già le prove per Sweeney Todd. Visivamente molto riuscito, eppure non fu un successo. Da riscoprire. Regia dei fratelli Allen e Albert Hughes.
La vita segreta delle parole di Isabel Coixet, La Effe, ore 0,50.
Quando arrivò nei cinema – era il 2005 – sembrò segnare la nascita di un’autrice di rispetto, la catalana Isabel Coixet. Immediatamente immessa nelle liste dei derictors più promettenti, dei cineasti del comani ecc. ecc. Coixet è poi impercettibilmente slittata, se si eccettua per Lezioni d’amore, nel cono d’ombra, e ricordo come l’anno scorso alla Berlinale il suo Another Me non abbia suscitato un grande interesse. Credo che la sua cosa migliore resti questa. Film non dei soliti, già a partire dal bellissimo titolo. Con un qualcosa che ricorda, anche se con più pudore e meno acensioni melodrammatiche e mistiche, Le onde del destino di Lars Von Trier. Hanna è una ragazza croata dall’udito assai compromesso trasferitasi in Inghilterra. Si ritroverà, un po’ per caso un po’ per scelta, ad assistera come infermiera un uomo, Josef, rimasto ustionato durante un incendio su una piattaforma petrolifera nel Mare del Nord (ecco i riferimenti a Von Trier). Lei sordastra, lui quasi cieco. Sarà una comunicazione faticosa di parole e segni corporali che riuscirà però a connettere i due, portandoli a rivelare e dire cose segrete di sé. Niente è come appare, tutto sta celato nel profondo. Sarah Polley, la regista-attrice canadese che con il suo docu Stories We Tell ha avuto recentemente un gran successo americano, è Hanna, Tim Robbins è Josef.
La vispa Teresa di Mario Mattoli, Rete Capri, ore 21,00.
Commedia di Mario Mattoli girata in piena guerra e uscita nei cinema italiani subito dopo la liberazione. Film con ancora l’eco dei telefoni bianchi, ma in un momento ormai di passaggio verso un altro cinema, quello del neorealismo. La vispa Teresa ha per protagonista l’attrice brillante del tempo, Lilia Silvi (che i gazzettieri definivano peperino), con Carlo Campanini, Aldo Gandusio, Carlo Ninchi e, a far da attor giovane, Roberto Villa e non Leonardo Cortese come erroneamente creditato da alcuni. Soggetto del gran commediografo Aldo De Benedetti che però non potè firmare in quanto ebreo (le leggi razziali lo impedivano). Un ragazzo di buona famiglia vien spedito dalla famiglia lontano, a Cortina, perché dimentichi la manicure che vorrebbe sposare. Ma quando tornerà a Roma finirà innamorato di un’altra manicure. Mésaillance! Con tutti gli ostacoli e gli impedimenti del caso e le ostilità da parte della famiglia.
Rosso nel buio di Claude Chabrol, Rete Capri, ore 23,00.
Thriller di Claude Chabrol del 1977 non tra i suoi pià conosciuti. Eppure con un cast di prima fascia, Dinald Sutherland, Stéphane Audran, Donald Pleasance, David Hemmings. Tutto parte da una ragazza che, insanguinata, si rifugia in un posto di polizia. Hanno appena ucciso sua cugina Muriel. Comincerà a raccontare di una disfunzionale famiglia e relativi sordidi segreti. Da un noir di Ed McBain.
Fast Food Nation di Richard Linklater, la7, ore 0,00.
Richard Linklater è uno dei nomi più solidi e autorevoli del cinema indie americano delle ultime due decadi, autore in bilico tra sperimentalismi arditi e narrazioni più classiche, anche se non proprio mainstream: con all’attivo anche ottimi successi al box office, come la trilogia ‘Before’ (Prima dell’alba, Prima del tramonto e il più recente Before Midnight) e il musical-scolastico (cui Glee deve qualcosa) School of Rock. Un paio di anni fa è andato molto bene al box-office Usa il suo Bernie, con il trio Jack Black, Shirley MacLaine e Matthew McConaughey, in questo primo 2014 ha messo a segno un gran colpo conee il magnifico Boyhood, il film che più è piaciuto alla Berlinale anche se poi non ce l’ha fatta a prendersi l’Orso d’oro. Fast Food Nation, del 2006, incarna l’anima più leftist e militante di Linklater, che si misura con uno dei bersagli privilegiati dei movimenti antiglobal, la grande industria degli hamburger. Ogni allusione è più che voluta, ma qui il brand preso di mira si chiama per non avere grane Micky’s. Dunque, gli hamburger risultano contaminati, e un manager viene mandato dagli headquarters a indagare fin laggiù nel Colorado dov’è la più grande fabbrica di polpette. Tra suini allevati su scala industriale, ragazzi che conoscono troppe cose delicate, lavoratori immigrati clandestini, il nostro detective scoprirà la sgradevole verità. Diventerà il paladino dei consumatori o insabbierà tutto? Realismo che sembra sconfinare nel mockumentary, anche se la lzioncina politica appesantisce e rallenta un po’ la scorrevolezza. Nel cast Greg Kinnear, il fedele linklateriano Ethan Hawke, più Patricia Arquette, più Avril Lavigne in partecipazione speciale. Se solo predicasse un po’ meno, Linklater sarebbe un grande. E però, nessuno come lui oggi è in grado di fare in modo altrettanto convincente un cinema sospeso tra il documentaristico e la narrativizzazione-fictionalizzazione.
La zona morta di David Cronenberg, Rai 4, ore 1,08.
David Cronenberg dirige un film tratto da Stephen King: anime inquiete che si incontrano, e il risultato è molto buono. Un film di genere (produzione Dino De Laurentiis) che lascia però ampie zone al regista canadese per dispiegare il suo cinema della minaccia e del perturbante. Un uomo si ridesta dal coma e scopre di avere il potere di predire quello che sta accadendo. Un dono che si rivelerà un fardello. Del 1983, e a tutt’oggi uno dei migliori film da King. Con quell’attore prfetto per l’horror autoriale che è Christopher Walken.
Fearless di Ronny Yu, Rai 4, ore 23,15.
Colossale produzione cino-hongkonghese della scorsa decade che celebra con grandi mezzi e senso dello spettacolo l’eccellenza nazionale in fatto di arti marziali. E lo fa raccontando e mettendo in scena la vera storia di Yuanjia Huo, maestro di comattimento tra Otto e Novecento. Dirige Ronny Yu, protagonisti Jet Li e Michelle Yeoh. Nel 1910, in una Cina in dissoluzione e preda ambita da ogni potenza straniera, Yuanjia Huo sfida tre lottatori europei e un giapponese, in una gara che è metafora fin troppo trasparente di un paese nell’angolo costretto a combattere per la sopravvivenza. Durante l’attesa dell’incontro decisivo in flashback assistiamo alla vita di Yuanjia Huo, dagli anni della formazione a quelli della difficile affermazione. Una storia individuale che si fa rappresentativa di un paese, di una nazione, di un’identità collettiva. Enorme successo in patria e ottimo esito anche sui mercati stranieri. Non il solito film di arti marziali.