I mondi a parte di Barcellona e Athletic Bilbao

Creato il 19 marzo 2012 da Giornalismo2012 @Giornalismo2012


-Di Andrea Ciprandi

Ci sono due squadre di cui si dicono meraviglie per quanto stanno facendo in questo periodo. Si tratta di Barcellona e Athletic Bilbao. La prima è assurta già da tempo addirittura a modello calcistico moderno; la seconda invece si sta guadagnando la definitiva consacrazione anche di fronte al pubblico più numeroso e meno competente soltanto ora, nel corso di una stagione costellata da affermazioni di prestigio, a dispetto di una tradizione pari a quella degli attuali campioni d’Europa e del mondo.

Al di là dei successi che stanno raccogliendo, ad accomunare questi due club non è tanto il fatto che siano entrambi spagnoli quanto piuttosto l’appartenenza ad altrettante comunità assai particolari che anzi con la nazione di cui fanno parte vorrebbero avere a che fare il meno possibile: Catalunya e Paesi Baschi. Sono queste terre nelle quali continua a serpeggiare un fortissimo sentimento separazionista o comunque è presente un senso di appartenenza radicato al punto da influire anche sullo sport.

La caratteristica principale del Barcellona è di trasferire nella prima squadra gli stessi concetti tattici e nel concreto i ragazzi delle giovanili, se non in assoluto il più possibile. Per chiarire il concetto sarà sufficiente ricordare che negli ultimi tre anni i calciatori usciti dalla Masìa, la sua scuola calcio, non sono mai stati meno di due terzi del totale di quelli che hanno vinto 3 campionati, 1 Coppa del Re, 3 Supercoppe spagnole ma soprattutto conquistato 2 Champions League, 2 Supercoppe europee e 2 Mondiali per Club. Nella formazione di partenza decisa dall’allenatore Guardiola (anch’egli uscito ai tempi dal vivaio ‘blaulgrana’) per la finale del Mondiale per Club vinta lo scorso dicembre contro il Santos, poi, erano addirittura nove. Questo a coronamento di un progetto a lunghissimo termine, frutto della mentalità che da sempre caratterizza questa società in netta contrapposizione all’andamento del movimento calcistico globale.

Se il Barcellona ha dimostrato che si può vincere contando principalmente sulle proprie forze, pur in un momento storico in cui la qualità dei suoi prodotti non ha pari con quella del passato, è dal 1898 che l’Athletic Bilbao sta dando un’altra lezione al calcio mondiale.

Come il progetto del Barcellona si è dimostrato valido a dispetto delle autoimposizioni, che in realtà finiscono per essere una forza, anche quello dell’Athletic dà risultati eccellenti. I biancorossi hanno vinto 8 campionati e 23 Coppe del Re, risultando rispettivamente quarti e secondi nella graduatoria delle squadre più vincenti in queste due competizioni. Assieme ai poderosi Real Madrid e Barcellona con le cui capacità d’investimento non c’è nemmeno paragone, inoltre, sono i soli a non essere mai retrocessi e anche in virtù di ciò occupano il quarto posto nella classifica di Prima Divisione spagnola tutti i tempi. Adesso, poi, guidati dal tecnico Marcelo Bielsa stanno provando a conquistare anche il primo allora europeo della loro storia.Nello statuto di questo club è detto a chiare lettere che possono far parte della squadra esclusivamente giocatori baschi, di origine basca oppure usciti dai settori giovanili di squadre basche, intendendosi tutte quelle che si trovano nell’omonimo territorio compreso fra Spagna e Francia, a cavallo dei Pirenei. Il campanilismo e l’attaccamento ai propri colori, quindi, non esula dal riconoscimento di un’identità che varca i limiti cittadini e pur in presenza di altri club della stessa regione che sono chiaramente rivali finisce per compattare una popolazione che al pari di altre (si pensi, fra le tantissime, a quelle curda in Asia e charrúa in Sud America) prescinde dai confini disegnati dai governanti di turno.

Forse non è un caso che a guidarli dalla panchina ci sia un uomo cresciuto in un club che, con lui protagonista, ha espresso il massimo in termini sportivi quando ha adottato fin quasi all’esasperazione una politica che può essere considerata un misto fra il modello ‘barcelonista’ e quello degli ‘zurigorriak’. Argentino di Rosario, Bielsa è stato infatti capace di portare la squadra in cui era cresiuto, il Newell’s Old Boys, a disputare una finale di Copa Libertadores (l’equivalente sudamericano della Champions League) facendo conto su 22 ex ragazzi delle giovanili sui 25 che costituivano la rosa dei professionisti. Era il 1992 e praticamente si bissò il risultato ottenuto già quattro anni prima, quando i rossoneri avevano raggiunto lo stesso traguardo esclusivamente con calciatori del vivaio, nello specifico diciotto. Protagonista sul campo in entrambe le occasioni, fra l’altro, l’attuale loro allenatore, Gerardo Martino – anch’egli prodotto della scuola calcistica locale come anni dopo lo sarebbe stato Lionel Messi, che lì mosse i primi passi in attesa di finire a quella del Barcellona, tanto per individuare un altro filo conduttore in questa bellissima storia.

Certamente nel calcio vige una grande libertà in quanto ad organizzazione societaria, con particolare riguardo all’aspetto sportivo. La sentenza Bosman del 1995 ha poi dato una svolta in quanto a circolazione dei calciatori europei all’interno dell’Unione, liberalizzando di fatto il mercato. Ruolo tutt’altro che trascurabile è anche quello della forza dell’euro su molte altre valute; è per questo che tantissimi club sudamericani, anche i più prestigiosi, si privano regolarmente dei propri campioni col vantaggio di capitalizzare mentre le squadre europee possono rafforzarsi tecnicamente benché a discapito dell’identità – per restare al nostro paese, basti pensare che nell’Inter campione d’Italia e d’Europa nel 2009-10 tutti i titolari erano stranieri e in una rosa di 29 giocatori figuravano appena 5 italiani. C’è poi l’evoluzione della società, i cui effetti toccano anche le Nazionali: agli ultimi Mondiali, nella rosa della Germania figuravano undici fra giocatori di origine straniera e con doppio passaporto.

C’è chi vede nella preservazione dell’identità una chiusura dai risvolti sciovinisti, offensivi nei confronti del cosiddetto ‘altro’. C’è chi invece non subisce il fascino del ‘melting pot’ e teme che l’identità sia minacciata da un’apertura esagerata, figlia di una globalizzazione estrema, con infinite soluzioni di mercato alternative che consentono di trovare una scappatoia a una pianificazione sportiva spesso deficitaria. Una visione equilibrata delle cose, allora, potrebbe passare per il riconoscimento di tutte le realtà, ognuna con le proprie peculiarità; così facendo, dato che niente di per sé è sbagliato, nella diversità si ravviserebbe una ricchezza e si affronterebbero con serenità tutti i confronti da cui nessuna disciplina finisce per potersi sottrarre quando c’è agonismo. Ogni gara infatti vive fatalmente di contrapposizione, ma finché si resta nell’ambito della sportività non possono esserci problemi.


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