Fenoglio nacque ad Alba il 1° marzo 1922 e morì prematuramente all’ospedale delle Molinette di Torino, stroncato dal vizio del fumo per cancro ai bronchi, il 18 febbraio 1963. Oggi il grande testimone e narratore dell’epopea resistenziale delle Langhe avrebbe novant’anni.
Dal “Notiziario Einaudi” n° 1, uscito a fine maggio del 1952 e rivolto «ai librai, che sono i nostri ambasciatori accreditati in ogni angolo d’Italia», «ai giornalisti che vogliono essere informati e informare per tempo delle novità librarie», e ai lettori tutti, apprendiamo l’imminente uscita del suo libro di esordio, I ventitre giorni della città di Alba, nella collana I Gettoni diretta da Elio Vittorini. Tuttavia, già nel 1949 Fenoglio aveva pubblicato su Pesci rossi, il bollettino editoriale di Bompiani, il suo primo racconto, Il trucco, firmato con lo pseudonimodi Giovanni Federico Biamonti, ed inoltre aveva presentato all’Einaudi i Racconti della guerra civile e La paga del sabato, che ottenne un giudizio molto favorevole da Italo Calvino.
L’insieme dei dodici racconti che compongono I ventitre giorni (tra cui il primo, che dà il titolo alla raccolta, ed ancora Il trucco) costituiscono un evento fondamentale nella vita di Fenoglio, poiché da un lato rappresentano il difficile riadattamento alla vita borghese dopo l’esperienza partigiana, assunta nella sostanza a categoria esistenziale; dall’altro, sul piano degli affetti e delle relazioni familiari, vorrebbero segnare il riscatto agli occhi della madre Margherita, con la quale lo scrittore ebbe sempre un rapporto conflittuale per la divergenza di ideali e d’impostazione di vita.
Per la madre, una donna molto pragmatica e autoritaria, quel figlio – assorto solo sulla macchina da scrivere e nel fumo delle sue innumerevoli sigarette – era null’altro che un perdigiorno, non essendo neppure riuscito a conseguire la laurea in lettere come si sarebbe dovuto prefiggere. E Beppe, per mettere fine alle sue continue recriminazioni, un giorno le rispose secco: «Il primo libro pubblicato sarà la mia laurea.»
Pagine illuminanti, a questo proposito, sono state vergate dalla sorella dello scrittore (Marisa Fenoglio, Casa Fenoglio, Sellerio, Palermo 1996), che ricorda poi come alla morte del figlio, al quale sopravvisse ventisette anni, mamma Margherita si trasformò viceversa in vestale della sua memoria. Nondimeno, sull’asperità del loro rapporto, fa luce anche l’illustre e affettuosa biografa Gina Lagorio (Beppe Fenoglio, Marsilio, Venezia 1998), oltre che la madre stessa, la quale confessa:
Avevamo una macelleria, ma in tempo di guerra non vendevamo a borsa nera, come facevano tanti altri, quindi soldi ce n'erano pochi, e tenere i figli all'università non era facile. Beppe a scuola era sempre stato bravo, sapeva l'inglese meglio della professoressa, ma poi l'università non l'ha finita. Io glielo dicevo sempre, di studiare, ma lui aveva la passione dello scrivere. Gli trovavo sempre foglietti scarabocchiati dappertutto, anche sotto il letto. Eppure non ho mai pensato che potesse diventare uno scrittore, neanche quando sono usciti i primi libri. Una volta, nel '46, ricordo che Beppe mi appoggiò le due mani sulle spalle e mi disse: «Madre, il mio nome resterà, il tuo no». Ha avuto ragione lui, ma allora io non gli ho creduto.
Ed ancora:
Scriveva la notte, per tutta la notte. A volte aveva delle ispirazioni che lo raggiungevano quando cenavamo. Si precipitava allora nella sua camera e stendeva degli appunti veloci, nervosi, mentre lui stesso in quegli attimi fremeva, nervosissimo e teso per lo sforzo non indifferente e per l'ansia che lo rodeva. Ricomponeva in seguito queste sue note con grande fatica. [...] È restato sempre generoso con tutti. Forse divenne un po' più frenetico ed esigente nello scrivere. Ricorderò sempre una sua frase pronunciata in risposta ad un mio rimprovero circa l'eccessiva assiduità notturna al tavolino. Mi disse: «Vuoi capirlo, madre, che scrivo?...»
Fenoglio infatti, proprio nel ’46, si accinse ad elaborare quegli appunti annotati probabilmente a caldo, durante le lunghe attese ansiose passate sulle colline tra un attacco e l’altro, e li ricompose in quattro taccuini a firma: «Beppe», fortunosamente ritrovati da Giancarlo Molino sulle rive del Tanaro, a oltre trent’anni dalla sua morte.
Sulla loro autenticità non v’è ombra di dubbio, come attesta Lorenzo Mondo, che ne curò l’edizione per Einaudi nel 1994: essi non sono altro che i registri di conto della macelleria di suo padre, come risulta dall’intestazione di ciascun frontespizio; e il protagonista, che si presenta anche come narratore, si chiama Beppe, è nato nel 1922, è figlio di Amilcare e di Margherita, e ha una sorella di nome Marisa.
Questo il suo testamento spirituale, di autentico antieroe della Resistenza (Appunti partigiani 1944-1945, p. 49):
chiedo perdono ai morti e alle loro famiglie, scusa a quelli che ci han perduta la casa e il bestiame, ma io credo che allora tedeschi e fascisti non si siano salvate le spese. Non fu abilità nostra, né che loro fossero tutte schiappe. Fu, con la sua terra, la sua pietra e il suo bosco, la Langa, la nostra grande madre Langa.
Negli Appunti partigiani, pagine vive che rappresentano il nucleo costitutivo di tutta la sua produzione successiva, Il partigiano Johnny compreso, Fenoglio è Beppe della Langa: quello che il grande scrittore, destinato all’immortalità per aver messo al centro l’uomo al di sopra di qualsiasi retorica data dal momento storico, fu, volle essere e resta per sempre nella memoria di tutti noi.