I nuovi padroni dell'Afghanistan: il clan Haqqani

Creato il 23 ottobre 2010 da Andreaintonti
Ormai è ufficiale: per uscire dall'impasse la Coalizione dei paesi che 9 anni fa volevano “democratizzare” l'Afghanistan sarà costretta ad attuare quello che da noi si chiamerebbe “rimpasto” del governo-fantoccio di Hamid Karzai riempiendolo di Taleban, proprio coloro contro i quali fu scatenata la guerra che attualmente sta diventando il nuovo incubo per l'amministrazione di Washington. Tralasciando la fatidica quanto scontata domanda sul cosa ci stiamo a fare a questo punto in Afghanistan se coloro che dovremmo combattere stanno diventando in realtà nostri alleati (corsi e ricorsi storici...), c'è un'altra domanda – forse più interessante – da porsi: chi sono i (futuri) nuovi padroni dell'Afghanistan?
Innanzitutto dobbiamo fare un po' di chiarezza, perché con il termine “taleban” - o “talebano” se vogliamo leggerla all'italiana – che altro non sarebbe che il plurale del termine “talib” cioè “studente” indichiamo erroneamente tutto il fronte degli insorti, che invece si compone di ben sette gruppi:
  • i Taleban “propriamente detti” della zona di Kandahar che rappresentano il gruppo più ampio e meglio organizzato;
  • il clan degli Haqqani;
  • il clan Mansur;
  • il fronte di Tora-Bora;
  • il gruppo di Gulbuddin Hekmatyar, noto come Hezb-e-Islami (cioè “Partito Islamico”) che ha influenza su tutto l'Afghanistan;
  • piccoli gruppi salafiti nell'Afghanistan orientale
  • il fronte dei mujāhidīn.

I primi quattro compongono il cosiddetto “Movimento Talebano”, che si rifà all'autorità del mullah Mohammed Omar ed il cui scopo è quello di restaurare l'Emirato Islamico d'Afghanistan, cioè la forma di governo precedente agli attacchi del 2001 ed al governo Karzai accusato – a ragione – di aver affidato il paese ai potentissimi signori della guerra, sconfitti proprio dagli studenti delle madrasse prima dell'avvento della “Guerra al Terrore”, di George W. Bush e di tutto quello che abbiamo potuto leggere in questi anni.
Per parlare del futuro governo afghano possiamo seguire due strade: quella del mullah Abdul Salam Zaeef, ex ambasciatore taleban ad Islamabad e detenuto a Guantánamo Bay fino al 2005, secondo il quale nessuno degli uomini chiave che si rifanno al mullah Omar è stato chiamato per ora in causa («Non escludo che qualche militante secondario abbia aperto un qualche dialogo con gli Usa ed il governo Karzai. Nego però che siano cominciati seri negoziati con i veri alti dirigenti che fanno capo al mullah Omar a Quetta» ha detto durante un'intervista riportata dal Corriere della Sera) e dunque dare alla notizia la poca importanza che meriterebbe, oppure possiamo intraprendere la strada che sembra stiano seguendo un po' tutti i media mondiali per la quale da qualche settimana ben quattro degli esponenti chiave dei Taleban (non certo il mullah Omar, che sembra ormai vivere di luce riflessa dal suo passato e da più parti definito come “marionetta” dei pakistani) sono stati trasportati in una località segreta nei pressi di Kabul per iniziare i colloqui di pace.
Se consideriamo che la scorta a questi uomini viene fatta direttamente da personale NATO l'ago della bilancia sembra spostarsi verso quest'ultima tesi.
Di nomi in giro non se ne trovano, naturalmente. Quello che si sa per certo è che tre di loro appartengono alla Shura – cioè il Consiglio - di Quetta ed uno apparterrebbe al clan degli Haqqani, uno dei più radicali e feroci clan di tutto l'Afghanistan e – si dice – uno tra i più vicini ad Al Quaeda.
Se il governo Karzai, e dunque gli americani, hanno deciso di inserire tra gli interlocutori anche un esponente di questo clan significa che gli Haqqani non sono “personaggi qualunque” né all'interno del territorio e del sistema di potere afghano né all'interno dei pensieri e dell'agenda di Washington, ed è forse il caso di conoscere un po' meglio la loro storia.
Per farlo andiamo in Waziristan, terra di confine tra il Pakistan e l'Afghanistan (ad ovest) e circoscritta dai fiumi Tochi (a nord) e Gomal (a sud) e nella cui regione nord (il Waziristan è infatti diviso in Waziristan del Nord e del Sud) i taleban hanno de facto riproposto le stesse dinamiche che li portarono al potere nell'Afghanistan post-invasione sovietica, facendo diventare quella zona il cuore del terrorismo talebano (e, si credeva all'inizio del conflitto, anche il campo-base di Osama Bin Laden): sharìa come legge nazionale, decapitazioni, mutilazioni ed impiccagioni come forma di punizione per i nemici, in particolare per gli uomini di Hakeem Khan Zadran, signore della guerra che imperversava nella regione imponendo il pizzo ai commercianti, ai camionisti e persino sulle cerimonie nuziali, gestendo i traffici illegali (armi, droga ed alcool su tutti) e rapendo e sodomizzando bambini e ragazzi. Un affronto alla legge morale islamica! E fu per questo che l'arrivo dei talebani – e l'imposizione di un ferreo rispetto delle regole sharìatiche – fu visto positivamente dalla popolazione wazira, estremamente conservatrice. Esattamente quello che era successo a Kandahar quando nacque il “movimento” dei taleban.
A dettare legge nell'area, oggi, è proprio il clan degli Haqqani.
  • La riabilitazione talebana

Not as bad as you think”. È il titolo di un reportage della rivista inglese Prospect che, tra i primi, attua quell'opera di riabilitazione agli occhi del pubblico occidentale necessaria per far digerire la notizia per la quale i taleban che per 9 anni sono stati i “cattivi” torneranno ad essere – come negli anni '80 – i “buoni” e, naturalmente, per giustificare l'ingente quantità di denaro gettata al vento durante il conflitto.
Il calumet della pace tra taleban e Washington potrebbe essere fumato proprio in quella Guantánamo Bay che – stando ai dettami del Premio (ig)Nobel per la Pace Barack Obama – dovrebbe già essere chiusa da qualche tempo e che invece rimane aperta e lavora a pieno regime. Il gesto di “distensione”, quello cioè che farà capire ai taleban ed all'opinione pubblica mondiale che gli americani hanno la seria intenzione di chiudere positivamente le trattative sarà il rilascio dei detenuti pakistani durante la visita di una delegazione di Islamabad.
La “ricompensa” per il cessate il fuoco da parte americana sarà invece il controllo indiscusso del nord dell'Afghanistan, lasciando il sud (a maggioranza pashtun) ai taleban, ricreando la spaccatura socio-etnica che si era creata ai tempi della c.d. “Alleanza del Nord”. Il gioco delle diplomazie (più o meno sotterranee) è dunque in pieno svolgimento: americani, inglesi, sauditi, norvegesi, pachistani, tutti indaffarati nella risoluzione di quello che ormai è diventato – per gli americani - il nuovo Vietnam. Gli uffici di Islamabad – il cui ruolo diventa sempre più centrale ai fini di una veloce risoluzione – sono in contatto diretto con i talebani, ed in particolare con quel Sirajuddin Haqqani che sembra essere l'astro nascente della “dirigenza” talebana.
  • Le manovre interne all'ex nemico.

Dai negoziati viene ovviamente tenuto fuori il mullah Omar. Perché sarebbe davvero troppo complicato spiegare ad un'opinione pubblica attenta che l'uomo che fino a qualche anno fa era in cima alla lista nera dei cattivi sarebbe diventato il principale interlocutore per il ritorno a casa dei militari occidentali, ma anche e soprattutto perché ormai il mullah appartiene al passato. Il nuovo capo militare talebano è Abdul Qayyum Zakir, ex “ospite” di Guantánamo Bay, liberato nel 2008 e divenuto subito capo della guerriglia nelle zone dell'Helmand e di Kandahar, cioè le due aree strategicamente rilevanti (e dalle quali dovrebbe passare anche il tracciato del gasdotto trans-afghano: http://senorbabylon.blogspot.com/2010/10/la-geopolitica-del-gas.html) e più instabili di tutta la regione. A Zakir ed all'“ala violenta” dei taleban si contrappone il mullah Abdul Ghani Baradar, numero due nonché co-fondatore del movimento. Incline alla pace, Baradar – catturato, e poi liberato, durante un raid in Pakistan nello scorso febbraio – è considerato dal 2009 il vero capo del movimento talebano.
  • Il clan Haqqani: i nuovi padroni dell'Afghanistan?

Prima della resistenza anti-sovietica Mawlawi Jalaluddin Haqqani – il capostipite dell'omonimo clan – è uno dei tanti piccoli tiranni afghani che gestisce i suoi traffici con metodi mafiosi, diventando poi uno dei principali mujāhidīn di Hizb-e-Islami, il movimento anti-comunista afghano e, per questo, interlocutore privilegiato per la C.I.A. e l'Isi, il servizio di Intelligence pakistano, paese con il quale – come abbiamo visto – intesse forti rapporti che continua a mantenere ancora oggi. La conquista della città di Khost (capitale dell'omonima provincia della zona orientale del paese) nel 1991 viene premiata con il Ministero della Giustizia del primo governo dell'era post-comunista presieduto da Burhanuddin Rabbani (oggi a capo della Commissione per la riconciliazione).
Il feudo del clan è proprio nel territorio che dalla città di Khost arriva fino al nord del Waziristan, motivo per il quale si crede gli Haqqani abbiano dato ospitalità a Bin Laden nelle fasi iniziali della resistenza anti-americana. Poco prima della presa di Kabul da parte dei taleban (1995) Jalaluddin Haqqani aderisce al movimento del mullah Omar, diventando ministro per gli “affari tribali”. Da questo momento la stella del clan si appanna, per tornare a splendere con l'avvento di Sirajuddin, figlio di Jalaluddin e considerato il vero “oppositore” del mullah Omar. Conosciuto anche come “Khalifa”, in un'intervista rilasciata alla NBC si vanta di aver avuto l'aiuto dei generali afghani per organizzare alcuni dei suoi attentati: «Ci sono persone del governo, con un portafoglio pubblico a loro disposizione, che sostengono la nostra causa perché pensano alla difesa della loro sicurezza. Ci informano dei movimenti degli americani e della NATO». 200.000 dollari è l'importo della taglia messa sopra la sua testa.
È peraltro di ieri la notizia del suo ricovero nella zona di Kurram, vicino al villaggio di Mata Sanger in seguito ad un attacco aereo americano (avvenuto il 27 settembre) richiesto dai militari pakistani dopo l'uccisione di due militari dislocati alla frontiera.
È qui interessante interrompere momentaneamente il racconto sugli Haqqani e spostare l'obiettivo sui rapporti tra Stati Uniti e Pakistan: se, infatti, gli aiuti americani continuano ad essere tra le principali fonti di sostentamento per le popolazioni colpite dalle alluvioni, l'esercito di Islamabad blocca alla frontiera i convogli logistici diretti alle truppe NATO, come fatto proprio quel 27 settembre chiudendo le linee di rifornimento di Khyber Pass, quando non solo questi convogli sono rimasti bloccati alla frontiera, ma sono stati anche lasciati alla mercé delle forze talebane per oltre una settimana.
Indipendentemente da questo, però, come sanno bene ambedue le parti (checché ne dica il generale Petraeus, che voleva l'introduzione del clan nella “black list”) il buon esito del negoziato non è neanche lontanamente ipotizzabile senza la presenza di almeno un esponente degli Haqqani. E di questo ne è consapevole anche Karzai, che sempre più appare esautorato della propria funzione...
In tutto questo rimangono almeno un paio di punti oscuri sui quali è bene interrogarsi:
  1. Il placet americano all'ingresso dei taleban nel governo è dato esclusivamente dalla volontà di uscirsene al più presto dal “pantano” afghano o è forse da considerarsi come l'ennesima mossa nella partita a scacchi che Stati Uniti e Pakistan stanno giocando in attesa di aprire un reale scenario di guerra? Ed in tutto questo quale sarà il ruolo del clan Haqqani: semplici interlocutori per il nuovo governo o mediatori tra Washington e lo “Sceicco del Terrore” Osama Bin Laden per usarlo in funzione anti-pakistana (prima che questi si allei proprio con Islamabad)?
  2. All'interno dei nuovi rapporti di forza che si instaureranno in Afghanistan, la politica del dialogo con taleban “buoni” e “cattivi” allo stesso tempo è da leggersi solo come la fase finale dell'exit strategy militare americana o forse è solo un modo per continuare a tenere la regione nell'instabilità sfruttando la poca fiducia che scorre tra i vari clan?

Come si dice in questi casi: ai posteri spettera il compito di proferire l'ardua sentenza.
(1- Continua)

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