Avevo raggiunto i dieci anni, un groviglio d’infanzia ammutolita. Dieci anni era traguardo solenne, per la prima volta si scriveva l’età con doppia cifra. L'infanzia smette ufficialmente quando si aggiunge il primo zero agli anni. Smette ma non succede niente, si sta dentro lo stesso corpo di marmocchio inceppato delle altre estati, rimescolato dentro e fermo fuori. Tenevo dieci anni. Per dire l'età, il verbo tenere è più preciso. Stavo in un corpo imbozzolato e solo la testa cercava di forzarlo.
Me ne stavo rinchiuso nell'infanzia per balia asciutta avevo la stanzetta dove dormivo sotto i castelli di libri di mio padre. Salivano da terra sul soffitto, erano torri, cavalli e fanti di una scacchiera messa in verticale. Di notte entravano nei sogni le polveri di carta. Nell'infanzia ai piedi dei libri, gli occhi non conoscevano le lacrime.
Piangevo e mi vergognavo peggio che pisciare a letto.
A molti spiace il chiasso dei motori, invece lo preferisco a quello delle voci.
Attraverso i libri di mio padre imparavo a conoscere gli adulti dall’interno. Non erano i giganti che volevano credersi. Erano bambini deformati da un corpo ingombrante. Erano vulnerabili, criminali, patetici e prevedibili.
Mantenere: a dieci anni era il mio verbo preferito. Comportava la promessa di tenere per mano, mantenere.Conoscevo gli adulti, tranne un verbo che loro esageravano a ingrandire: amare. Mi infastidiva l’uso. In prima media lo studio della grammatica latina l’adoperava per esempio di prima coniugazione, con l’infinito in -are. Recitavamo tempi e modi dell’amare latino. Era un dolciume obbligatorio per me indifferente alla pasticceria. Più di tutto mi irritava l’imperativo: ama.
Erano due mazzi di carte nuove, intersecati fitti e fragorosi. Maschile e femminile esasperavano le loro differenze per piacersi.
Eravamo nati dopo la guerra, eravamo la schiuma che resta dopo la mareggiata.
Quell'anno primo delle medie ero stato rimandato a ottobre in matematica. Scoprii l’evidenza della mia inferiorità. Non seguivo i passaggi da una operazione all'altra. Senza saper chiedere, rimanevo indietro. Vedevo gli altri correre sui numeri e io fermo alla partenza. La scoperta dell’inferiorità serve a decidere di sé. L’accettai senza umiliazione, era solo da ammettere. C’erano campi sconfinati del sapere che non avrei sfiorato.
Oggi credo che l'enigmistica sia una buona scuola di scrittura, addestra all'esattezza del vocabolo che deve corrispondere alla definizione richiesta. Esclude quelle affini e l'esclusione è gran parte del vocabolario di chi scrive storie. L'enigmistica mi ha fornito la dote giocoliera necessaria alle parole. Quello che credevo allora un vizio solitario è stato invece l’officina meccanica della lingua.
“Non so niente di grandi, non mi importano, io scrivo storie di animali. Studio il comportamento: con il corpo si scambiano discorsi lunghi che a noi durano un’ora e neanche ci capiamo. Cerco di fare come loro, di non sprecare tempo.”
A me sembrava che ne avevamo in quantità [di tempo], che potevamo regalarlo a chi ne era agli sgoccioli. Già: si può fare un pacchetto con il tempo dentro, e offrirlo per Natale? Ne avevo un mucchio, il mio e in più quello che stava dentro i libri. Però doveva avere ragione lei, e gli animali, a non sprecare il tempo. Quello assegnato dura quanto quello non sprecato, il resto va perduto.
“Io credo a quello che trovo scritto. A voce si dicono un sacco di bugie. Ma quando uno le scrive, allora è vero.”Il grappolo schiacciato in bocca un acino per volta, scalzo di pomeriggio sulla terra felice dei passi di un bambino: quello era il più giusto dei grazie, non raggiunto da nessuna preghiera.
A dieci anni la modestia del mio corpo mi istigava a sparire. Camminavo inventando di essere invisibile. Mi tradivano i pantaloni blu e la canottiera bianca, per la strada camminavano da soli, senza me dentro, ma nessuno ci faceva caso. Di notte nudo sul letto potevo scomparire tutto intero.
Il gioco preferito era imparare a fare.
Mantenere, il mio verbo preferito, era successo. Come fa a saperlo? Pensai e mi risposi: lo sa e basta. Non avevo toccato niente di così liscio fino allora. Ora so neanche fino a oggi. Glielo dissi, che il suo palmo di mano era meglio del cavo di conchiglia, mentre risalivamo a riva, staccati. “Lo sai che hai detto una frase d’amore?” disse avviandosi verso l’ombrellone.Una frase d’amore? Neanche so cos'è, che le è venuto in mente? Ne sa più di me per via degli animali, ma si è sbagliata. Ho detto una frase di stupore. Il tatto è l’ultimo dei sensi ai quali sto attento. Eppure è il più diffuso, non sta in un organo solo come gli altri quattro, ma sparso in tutto il corpo. Mi guardai la mano, piccola e tozza e pure un poco ruvida. Chissà cosa avrà sentito nella sua. Non potevo chiedere, poteva essere per sbaglio una domanda d’amore.
Non potevo spiegarle che me li ero andati a cercare quei colpi, per costringere il corpo a cambiare. Esistono ragioni che sono peggiori dei fatti.
La guardavo e mi accorgevo che era così. Era una donna, la prima che emergeva da quella folla che non mi interessava. Altre volte ho riavuto la sorpresa di una donna che avanzava verso di me e il resto intorno andava fuori fuoco.
Le devo la liberazione del verbo amare che nel mio vocabolario stava agli arresti.Da lettore dimentico in fretta i nomi delle storie. Non aggiungono consistenza e sono una convenzione.
Allora come adesso preferisco il libro al film, per il motivo della precedenza. Non succede che un libro sia tratto da un film.Erano giovani, parlavano del mondo con la buona volontà amara di chi l’aveva visto sgretolarsi e doveva rifarlo.
Quando qualcosa di mio le andava proprio a genio mi diceva: “Aro' si asciuto?”, da dove sei uscito. Intendeva: non certo da me. Nessun apprezzamento per me potrà pareggiare questo.
A settembre succedono giorni di cielo sceso in terra. Si abbassa il ponte levatoio del suo castello in aria e giù per una scala azzurra il cielo si appoggia per un poco al suolo. A dieci anni potevo vedere i gradini squadrati, da poterli risalire cogli occhi. Oggi mi contento di averli visti e di credere che ci sono ancora. Settembre è il mese delle nozze tra la superficie terrestre e lo spazio di sopra acceso dalla luce. Sulle terrazze gradinate a viti i pescatori fanno i contadini e raccolgono i grappoli nei cesti fatti dalle donne. Prima ancora di spremerli, il giorno di vendemmia ubriaca gli scalzi tra i filari al sole e lo sciame delle vespe assetate.
Esiste nel corpo la neve che non si squaglia in nessun ferragosto, rimane dentro il fiato come il mare dentro una conchiglia vuota.
Capivo da confuso che il falso e il vero hanno un valore d'uso e non hanno importanza se servono a un sollievo. Potevo trascurare la mia verità, buona solo per me, in cambio di una parola di beneficio.
L'Italia sobbolliva a fuoco lento. Ritrovai la collera di bambino dentro le lacrime spremute dai gas lacrimogeni. Però potevo ricacciarle indietro, le lacrime, insieme ai barattoli fumanti del gas sparato addosso. Li raccoglievo bollenti con un guanto e li rilanciavo alle truppe. Si diventava molti, si riduceva l’importanza di se stessi.
Ho conosciuto allora peso e vastità del pronome noi. Era esperto, non escludeva gli altri, sgomentava i poteri. Portò nelle prigioni le rivolte e i libri, che non c'erano. Sono la più forte contraddizione delle sbarre, i libri. Al prigioniero steso sulla branda spalancano il soffitto.Stavo nella quiete a scrivere parole in croce, non usavo matita, troppo semplice cancellare e correggere. L'errore doveva restare, perciò scrivevo a penna in cerca del percorso netto. Se fallivo, iniziavo un altro schema. Ammetto con me stesso facilmente di fallire.
Ero rimasto immobile a guardarla. “Ma tu non chiudi gli occhi quando baci? I pesci non chiudono gli occhi.”
Capivo all'indietro quello che succedeva dentro i libri, quando uno si accorge della specialità di un'altra persona e concentra su quella l'esclusiva della sua attenzione. Capivo l'insistenza di isolarsi, starsene in due a parlare fitto. Non c'entrava per me il desiderio, quell'amore chiudeva con l’infanzia ma non smuoveva ancora nessun muscolo degli abbracci. Scintillava dentro, mi visitava il vuoto e me lo illuminava.
Prima delle partenze si usa scambiarsi gli indirizzi, promettersi di scrivere. Ci dicemmo noi no. “Non ci trasciniamo dietro una promessa che poi tradiremo. Lo sappiamo che non ci rivedremo. E se capiterà, saremo differenti e non ci riconosceremo. Cambierai forma e voce, gli occhi di pesce no, forse ti potrò riconoscere da quelli".
Oggi so che
quell'amore pulcino conteneva tutti gli addii seguenti. Nessuna si sarebbe fermata, non avrei conosciuto le nozze, niente fianco a fianco davanti a un terzo che domanda: “Vuoi tu?”. L’amore sarebbe stato una fermata breve tra gli isolamenti. Oggi penso a un tempo finale in comune con una donna, con la quale coincidere come fanno le rime, in fine di parola.“Ti piace l’amore?” chiese guardando dritto di fronte, dove si alzava la fiancata di una barca colorata di bianco e di una striscia azzurra.
“Prima di questa estate lo leggevo nei libri e non capivo perché gli adulti si scaldavano tanto. Adesso lo so, fa succedere cambiamenti e alle persone piace essere cambiate. Non so se piace a me, però ce l’ho e prima non c’era.”
“Ce l’hai?”
“Sì, mi sono accorto di avercelo. È cominciato dalla mano, la prima volta che me l’hai tenuta. Mantenere è il mio verbo preferito.”
“Cose buffe dici. Sei innamorato di me?”
“Si dice così? È cominciato dalla mano, che si è innamorata della tua. Poi si sono innamorate le ferite che si sono messe a guarire alla svelta, la sera che sei venuta in visita e mi hai toccato. Quando sei uscita dalla stanza stavo bene, mi sono alzato dal letto e il giorno dopo ero a mare.”
“Allora ti piace l’amore?”
“È pericoloso. Ci scappano ferite e poi per la giustizia altre ferite. Non è una serenata al balcone, somiglia a una mareggiata di libeccio, strapazza il mare sopra, e sotto lo rimescola. Non lo so se mi piace.”
“Il bacio che ti ho dato, quello almeno ti è piaciuto?”
“Quello non era dato a me, era sbattuto in faccia a loro due per terra.”
Seduti di fianco in poca luce, le parole venivano su svelte, a bollicine.
“Allora te ne devo uno tutto tuo?”
Era così bellissima vicina, le labbra appena aperte. Mi commuovono quelle di una donna, nude quando si accostano a baciare, si spogliano di tutto, dalle parole in giù.
“Chiudi quei benedetti occhi di pesce.”
“Ma non posso. Se tu vedessi quello che vedo io, non li potresti chiudere.”
Adesso e qui sta bene la parola fine, sorella minore di confine e di finestra chiusa.
♥ I miei scarabocchi su "I pesci non chiudono gli occhi", di Erri De Luca