“Il pirata non rientra fra i legittimi nemici di guerra, ma è il comune nemico di tutto il genere umano.”
Dagli albori della navigazione, non vi è secolo che non abbia fatto i conti con la pirateria: dai fenici ai saraceni, dai malesiani ai somali, oggi come ieri, uomini (e donne!) solcano i mari in cerca di ricchezze. Tra successi e fallimenti, da sempre flotte di tutto il mondo hanno cercano di bonificare le vitali rotte commerciali: come ai tempi di Pompeo, anche in questo secolo dobbiamo contrastare i pirati.
In questi ultimi anni sentiamo più spesso parlare di attacchi ai natanti (a volte conclusi in veri e propri sequestri) ad opera di pirati somali: questi ultimi non sono gli unici filibustieri della nostra epoca ma sicuramente sono quelli più abili, perciò saranno oggetto di questa analisi.
Prima di procedere alla descrizione della suddetta piaga, bisogna definire la pirateria marittima: quindi, secondo l’art. 101 della convenzione di Montego Bay, essa è qualsiasi atto illecito di violenza o detenzione oppure saccheggio commesso per fini privati dall’equipaggio di un’imbarcazione o un aeromobile privato ai danni di una nave, equipaggio o proprietà all’interno della nave (…) in acque internazionali. Evidentemente risulta ancora una nozione insufficiente per contrastare gli atti barbareschi perpetrati sotto le 12 miglia – zone d’ombra, escluse dalla giurisdizione internazionale, non adeguatamente garantite dalle autorità statali –, così, per superare questa omissione, grazie alla SUA Convention, è possibile perseguire i reati marittimi (ovunque essi si commettano), anche a scapito delle sovranità nazionali, implementando dunque la disciplina in merito al fenomeno.
Seppur di origini antiche, la pirateria somala inizia a far parlare di se da poco più di un ventennio. Infatti, le sorti di Siad Barre, generatrici della somalizzazione[1], hanno dato vita ad un florido scenario per quegli attori locali già dediti a piccole attività criminali. Questi, approfittando così del caos istituzionale, hanno condotto le prime fasi della pirateria: attacchi disorganizzati col fine di derubare l’equipaggio e recuperare la ricca cassaforte, ovvero di quanto è possibile trasbordare.
Col tempo si è registrato un incremento della casistica e quindi dell’efficienza con cui gli
Dunque i “corsari” somali (e non solo essi), seppur al servizio non di un governo bensì al soldo di altri criminali, si posso facilmente categorizzare in 3 professionalità: ex-pescatori (abili nella navigazione), ex-miliziani (collaudati in arrembaggi e sequestri) e, non ultimi, operatori tecnici (altamente istruiti all’uso dei sistemi di bordo). Sicché la vigorosa presenza di natanti, persone e merci, il basso rischio di cattura, la scarsa certezza del diritto, l’operabilità all’interno di weak e failed States, rendono l’area del golfo di Aden e dell’oceano Indiano meta paradisiaca per un’accumulazione alternativa di capitali.
Nel 2008, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, attraverso la risoluzione 1838, attua un decisivo contrasto alla pirateria: legittimando così le marine già presenti in missioni di protezione delle rotte commerciali. Le formazioni di task force combinate risultano una misura indispensabile ma ancora insufficiente alla lotta anti-pirateria: una soluzione regionale rimane l’unica soluzione plausibile del problema.
Nel solo stretto di Hormuz transita il 90% della produzione mondiale di greggio diretto in Asia ed Europa, pertanto la pirateria comporta un ingente rischio economico sia per le compagnie mercantili[2] che per i singoli paesi[3], con ripercussioni internazionali stimate sui 7 miliardi di dollari nell’ultimo anno. Ciò ha portato ad un sostegno del Transitional Federal Government da parte di ONU, Unione Africana, Lega Araba e UE (quest’ultima anche col fiasco progetto militare EUTM Somalia). E fino ad oggi l’iniziativa più importante è svolta dai paesi africani sotto il nome di AMISOM, con il Kenya in prima linea che mette a disposizione anche il suo apparato giudiziario e carcerario.
Proprio in questi giorni sta facendo discutere la Conferenza di Londra che ha visto l’inedita partecipazione di quei soggetti somali ancora “semi-autonomi”. Ancor prima della conferenza, infatti, giravano già delle bozze (di cui una italiana) di stampo neo-colonialista: l’idea era quella di sostituire il TFG con un mandato ONU-UA fino al 2014, in stile iracheno. Giustamente la cosa non è piaciuta affatto, e fortunatamente alla conferenza non si è parlato di alcun mandato fiduciario, ma semplicemente sono stati riconfermati i successi finora ottenuti. Restano comunque aperte molte incognite: la formazione del futuro governo e la relativa coesione tra i clan; gli interessi petroliferi; l’incremento delle truppe dell’Unione Africana nella lotta contro il gruppo filoqaedista Al-Shabaab; e, infine, il ruolo della Turchia e delle altre nazioni musulmane. Il tutto rinviato alla prossima conferenza estiva con sede Istanbul.
Note:
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Processo di frammentazione del potere statale che ricade nelle mani di tribù e/o di warlord.
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Dati presi da Blogging the Security (con fonte TTM – Sea Technology & Logistic):
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fra 1 e 3 milioni di dollari volore del riscatto
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25/30 mila dollari di assicurazione per il viaggio in acque pericolose;
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2500/5000 dollari al giorno per il negoziatore professionista (durata delle trattative statisticamente attestata su due o 3 mesi);
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consulenza legale per evitare che gli accordi violino le leggi locali (cifra variabile da studio legale a studio legale, comunque pari a sei zeri);
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eventuale scorta della Marina Yemenita (50mila dollari al giorno);
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bollette telefoniche con telefono satellitare della nave 40/60 mila dollari;
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consegna del riscatto tramite agenzie internazionali di security (250/500 mila dollari);
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se il riscatto non viene consegnato attraverso un circuito bancario è da calcolare il noleggio dell’aereo e due piloti esperti che sappiano paracadutare il riscatto sul ponte della nave sequestrata;
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costo del mancato noleggio della nave da 20 mila a 100 mila dollari al giorno.
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Rilevante è il caso delle Seychelles che ha visto un sensibile calo dell’indotto ittico e turistico e il relativo aumento delle spese per la sicurezza marittima, uno sforzo insostenibile per un stato di tali dimensioni.
Photo Credit: marineinsight.com