Postato il marzo 21, 2012 | TEATRO | Autore: Manuela Marascio
Anni di studio annoiato e sbadigliante, accompagnato da una costante domanda: perché tre diverse edizioni, con tanto di “risciacquatura dei panni”, per arrivare a un romanzo che non capisce nessuno? È sempre stato estremamente difficile riconoscersi nella lingua del caro, vecchio Alessandro Manzoni, nevrotico caposaldo della nostra letteratura; come dimenticare quelle interminabili pagine piene zeppe di dettagli storici e di nomi irripetibili, che rendevano sempre più estenuante l’attesa di un banalissimo matrimonio? Eppure, I promessi sposi costituiscono una parte non poco consistente del bagaglio culturale che ci portiamo dietro: nonostante tutte le maledizioni e le imprecazioni che continuamente fanno rivoltare nella tomba il nostro religiosissimo autore, il suo romanzo è un bel mattone sempre ricordato, nel bene o nel male (più nel male che nel bene, siamo sinceri…). Ma la Provvidenza soccorre sempre gli afflitti – così ci insegna il sommo scrittore – e può capitare che riaccenda in noi un certo entusiasmo, soppresso dalle indiscutibili imposizioni scolastiche, grazie a un’esplosiva rivisitazione, tutta colori e volume, di uno dei testi meno eufonici della storia. La realizzazione del musical, diretto da Michele Guardì e con le musiche di Pippo Flora, ha dimostrato che è possibile un approccio innovativo a una delle opere più intoccabili della letteratura: questo romanzone è stato arrangiato e movimentato senza venire stravolto, e le sue scene salienti valorizzate senza discontinuità. Lasciandosi alle spalle i vecchi preconcetti, si accetta facilmente che Renzo e Lucia interpretino la parte di due giovani innamorati, che si scambiano romantiche promesse d’amore eterno al chiaro di luna, e che interagiscano tra di loro con canzoni tutte dolcezze e ugola – forse eccessivamente zuccherine. Quasi tutti i personaggi sono stati rivisitati in chiave romantica, lasciando emergere, sotto la possente muscolatura di Giò Di Tonno, il lato più sconosciuto di un Don Rodrigo bruciante del fuoco dell’amore, o la straziante tentazione della Monaca di Monza, interpretata splendidamente dalla bravissima Rosalia Misseri.
Si può dire che, in generale, in questa rivisitazione il vero protagonista sia proprio quell’amore che Manzoni aveva tralasciato, congelandolo in una forma arida e apatica: qui, Renzo e Lucia riescono finalmente a scambiarsi tenere effusioni, dichiarando esplicitamente l’impossibilità di vivere separati. Non siamo più di fronte a relitti della storia, ma a veri e propri moti dell’animo esteriorizzati: il corpo di ballo, costantemente presente, interviene nel dare forma a sogni, incubi e speranze dei personaggi. Anche la scenografia è dinamica: attraverso rapidi scivolamenti laterali delle strutture montate sul palco, vengono ricreati tutti gli svariati luoghi del romanzo, anche se questa impostazione porta a privilegiare la rappresentazione degli spazi aperti, lasciando al pubblico la facoltà di immaginare accoglienti cantucci e intime camerette. Ottima la resa del contrasto fra il caos della rivolta milanese per il pane e la placida tranquillità del convento di Monza: alla folla in tumulto davanti alla proiezione dell’imponente Duomo, si sostituisce una luce soffusa che avvolge i canti angelici delle monache di clausura. E, proprio come durante la lettura del romanzo, è inevitabile che, alla fine, siano i cattivi a rimanere più impressi: peccato per la resa un po’ debole della notte dell’Innominato, ma pienamente azzeccata la sensualità aggressiva della Monaca di Monza e ben riuscito l’azzardo di un Don Rodrigo passionario. D’effetto anche la comparsa di alcuni “troni” sulla scena, su cui salgono e scendono Azzeccagarbugli, Don Rodrigo e l’Innominato, personaggi dalla superiorità vacillante. La pioggia finale è acqua fresca e miracolosa, che spegne lotte, malattia e odio; sull’ultima nota, si accende la luce divina, e si può finalmente dire “e vissero per sempre felici e contenti”.