di Francesco Gori
“Noi Puffi siam così, noi siamo puffi blu” cantava Cristina D’Avena negli anni Ottanta, quelli in cui i folletti spopolavano sulle reti Fininvest.
E i Puffi, come il fumetto di Topolino o un altro grande cartone animato dell’epoca come Kenshiro, fanno parte di un amarcord, di ricordi d’infanzia da raccontare alle generazioni di bambini di adesso. Che non possono assaporarne l’originalità, essendo un prodotto che andava a braccetto con lo stile di vita leggero e scanzonato di quel tempo. Il film uscito nelle sale cinematografiche nel 2011, condito di tecniche d’animazione d’avanguardia, non regge ad esempio il confronto con il semplice, quanto indimenticabile lungometraggio di John e Solfami (e il loro flauto magico), nel quale i puffi appaiono per la prima volta in televisione, dopo esser stati fumetto.
Già, di magia stiamo parlando. Quella di un mondo fantastico, che vede gli gnomi blu vivere in una città incantata, ubicata in una foresta – resa inaccessibile a chi “puffo non è” da un incantesimo del Grande Puffo, il saggio che guida la comunità -, dove le case che la compongono sono grandi funghi.
I puffi – foto intelligentpositioning.com
I puffi sono tutti maschi dalla pelle blu, con l’eccezione di Puffetta, sono alti “tre mele o poco più” e portano un cappuccio bianco – Grande Puffo è l’unica eccezione, di rosso vestito – che non si tolgono mai.
Ogni puffo rappresenta una tipica personalità umana o uno specifico lavoro, in una variabilità ipoteticamente infinita ma che si ferma ad un centinaio di figure: chi non ricorda Puffo brontolone e il suo “io odio (fare questo o quello)” , il tatuaggio di Puffo Forzuto, gli occhiali di Quattrocchi o il narcisismo di Puffo Vanitoso? E ancora… Baby Puffo, Puffo Pigrone, Golosone, Tontolone, ecc. Per un intero decennio (poi riproposti anche negli anni successivi), i Puffi hanno catalizzato le attenzioni di grandi e piccini, per la loro simpatia, per quel disegno così essenziale, quanto efficace. Per la capacità di rappresentare il mondo normale con l’incantesimo della serie animata. E quel loro gergo, dove tutto è “puffabile”, “puffare” è il verbo, “puffoso” l’aggettivo, “accipuffolina!”
I nostri eroi vivono e lavorano con serenità nel loro villaggio ma, come in ogni favola o storia, sono costretti a fare i conti con il male, il nemico che cerca di destabilizzarne l’equilibrio: è Gargamella (da non confondersi con Bersani, così soprannominato da Beppe Grillo), col suo naso appuntito – da stregone qual è – , brutto e senza capelli, sdentato, e con un appetito vorace che lo vede costantemente a caccia di puffi da bollire nel pentolone. Insieme a lui la gatta Birba, compagna felina di risate malvage.
Pensare e rivedere un episodio dei Puffi è un modo per tornare bambini, per ricordare il passato, ma anche per recuperare modelli positivi per il mondo attuale, a volte troppo complesso, persino nei cartoni animati. I folletti blu sono l‘esempio di un vivere “sociale”, di una comunità attiva e solidale che dovrebbe ispirare tempi nei quali la cura del proprio orticello e la proprietà privata sono state portate all’eccesso.
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