Un testo troppo semplice e breve che non riesce a rendere appieno tutto il dramma che sta dietro ai rapimenti dei bambini e ai traffici illegali di organi, tematiche agghiaccianti che sembrano troppo distanti da noi, ma che, invece, sono lì, latenti, pronte a esplodere in tutta la loro sconvolgente vergogna.
Di sicuro, l’elemento preponderante di questo romanzo breve è il fortissimo senso di abbandono e sconforto che la protagonista del libro alterna alla rabbia, al rancore, al timore di non riuscire a sconfiggere il sistema “malato” in cui vive, un sistema in cui, come sempre, a pagare sono solo i più deboli, nella maniera più subdola e viscida immaginabile: la sottrazione di un figlio compiuta con il “beneplacito” di chi sta al potere.
Il libro, però, è anche un inno all’azione, alla forza. All’amore. Sentimenti, questi, che si palesano con il senso di rivincita, con la coalizione tra donne che si creano uno spazio di ribellione per ribellarsi all’assurdità delle atroci tragedie che sono costrette a subire.
Tutte le pagine sono un lungo e incessante susseguirsi di azioni messe in atto dalla protagonista, azioni anche illegali e immorali, per ritrovare la figlia e per riprendersela, strappandola all’unico nucleo familiare da lei conosciuto. E si insinua un dubbio nel lettore: se, invece, avesse ragione Flor, una delle donne travolte da questa tragedia che è la privazione violenta del proprio figlio, che preferisce “fingere di dimenticarsi” di questa creatura piuttosto che agire per rovinargli l’esistenza pretendendo di ritrovarlo e strapparlo da quella che lui conosce e ama come la “propria famiglia”? Fino a che punto il fine giustifica i mezzi?