I ragazzi di via Pal – Ferenc Molnar (estratto)

Creato il 05 novembre 2011 da Maxscorda @MaxScorda

5 novembre 2011 di Massimiliano Scordamaglia Lascia un commento

Ma, ad un tratto, successe qualcosa d’imprevisto:il professore, che già stava uscendo, si fermò, e poi ritornò presso la cattedra."Un momento!" disse.
Si rifece, nell’aula, un silenzio profondo. Egli trasse di tasca un foglietto, si accomodò gli occhiali sul naso, e cominciò a leggere una fila di nomi."Weisz!""Presente!" rispose questi, spaventato."Richter, Csele, Kolnay, Barabas, Leszik, Nemecsek!"…Ciascuno dei chiamati, rispose, a sua volta:"Presente!"
"Voi mi seguirete nella sala dei professori. Ho qualcosa da dirvi"… Senza aggiungere una parola di spiegazione, uscì. Un intenso mormorio fiorì da tutte le parti: "Cosa vorrà da noi?" "Perchè non ci lascia andare a casa?"
"Che cosa avrà da dirci?" Siccome tutti i ragazzi "invitati" dal professor Racz erano membri dell’associazione della via Pàl, essi interrogarono il loro presidente. "Io non so che cosa possa essere", rispose questi.
"Andate, in ogni modo. Vi aspetterò nel corridoio". E, rivolto agli altri che non erano stati chiamati:"Ebbene, la riunione non sarà per le due, ma per le tre. É successo un contrattempo. Alle tre, dunque, sul campo".
I corridoi della scuola si popolarono. Da tutte le classi si riversavano fiotti agitati di piccoli geni; ed i passaggi, poco prima deserti e silenziosi, risuonavano ora di un fracasso infernale. I ragazzi si sospingevano l’un l’altro, senza tanti riguardi, dalla fretta di uscire."Voi siete in castigo?" chiese uno scolaro passando presso il triste gruppo fermo innanzi alla sala dei professori."No!" rispose fieramente Weisz. E gli fece una boccaccia.
Lo scolaro se ne andò di corsa, e tutto il gruppo lo seguì con uno sguardo d’invidia. Egli era ben libero di andarsene! Dopo qualche minuto di attesa, la porta della sala di…pardon!: stavo per dire "di tortura"dei professori si aprì, e la figura alta e magra del signor Racz s’inquadrò nella soglia."Entrate!" egli disse.
La sala era vuota. In un silenzio mortale, i ragazzi s’allinearono davanti ad un grosso tavolo coperto da un tappeto verde. Quando l’ultimo entrato s’ebbe chiusa la porta alle spalle, il professore si sedette, e li squadrò con un’occhiata fredda."Ci siete tutti?" "Sissignore".
Dal cortile giungeva il tumulto gioioso di quelli che rientravano liberamente a casa loro."Chiudi quella finestra, Cselel". "Sissignore". Nel locale si fece un silenzio di cattivo augurio.

"Ho saputo" fece infine il professore, rompendo il silenzio opprimente, "che voi avete fondato una società… qualcosa come "la società dello stucco", se le mie informazioni sono esatte. Colui che mi ha fornito questa indicazione, mi ha anche consegnato l’elenco con i nominativi di tutti i soci:si tratta di voi. É esatto?"
Nessuno rispose. Ma gli accusati se ne stavano lì a testa bassa, e il loro silenzio era più eloquente di qualsiasi confessione. Il professor Racz, continuò:"Procediamo per ordine: prima di tutto, io vorrei sapere chi, tra voi, ha preso questa singolare iniziativa, dopo che io avevo predicato più e più volte che nessuna associazione, o club, o cosa simile, era più tollerabile nell’ordinamento scolastico. Chi sono, dunque, i fondatori?"
Silenzio di tomba. Il professore stava già per impazientirsi, quando una voce timida si levò: "Fu Weisz"…
Egli fissò Weisz con uno sguardo che lo passò da parte a parte. "Non puoi presentarti da te stesso?!" "Sis…signore"… balbettò il ragazzo."Ebbene: cosa aspetti?" Il povero Weisz non sapeva che rispondere.
Intanto, il professore aveva acceso un grosso sigaro, ed ora ne sbuffava in alto il fumo, a grandi boccate.
Visto che il ragazzo non si decideva a rispondere alla sua domanda sibillina, proseguì: "Non importa.
Procediamo con ordine: ditemi subito che cosa c’entra lo stucco". Per tutta risposta, Weisz si cacciò una mano in tasca, e ne trasse un grosso pezzo di stucco da vetraio. Lo posò sul tavolo, lo contemplò un poco, e poi, con voce appena percettibile, dichiarò: "Ecco qui lo stucco". "E che cos’è?" "É una pasta che adoperano i vetrai per fermare i vetri nelle loro intelaiature di legno. Quando è fresco, si può facilmente grattare via con le unghie"…
"E questo pezzo… l’hai grattato tutto da te solo?"… "Nossignore: questo è lo stucco di tutti i soci".
Il professore spalancò tanto d’occhi."Cosa?! Cosa?!" gridò. Weisz, che s’era ormai rinfrancato, rispose: "Questo è stato raccolto dai membri. Io sono solo incaricato di conservarlo. Prima il cassiere era Kolnay, era lui che lo teneva; ma lo lasciò seccare tutto, perché non lo masticava mai". "Ah!… Bisogna anche masticarlo?!"
"Sissignore, certamente! Se non lo si mastica diventa duro, e non è più possibile plasmarlo. Io lo mastico tutti i giorni"… "E; perché proprio tu?" "Dallo statuto della Società, il presidente è obbligato a masticare lo stucco sociale almeno una volta al giorno, affinché non si secchi"… A questo punto, Weisz scoppiò in lacrime; e confessò, con voce rotta dai singhiozzi: "E… e… sono io… il presidente in carica ora!"…
Il momento era cruciale, drammatico. Il professor Racz, chiese severamente: "In che modo siete entrati in possesso di tutto questo gran pezzo di stucco?" Nuovo silenzio. Da dietro le sue lenti, guardò fissamente Kolnay."Kolnay, Dimmi subito come l’avete raccolto!" Il ragazzo rispose barbugliando, come qualcuno che voglia liberarsi la coscienza con delle confessioni sincere: "Noi l’abbiamo ormai da più d’un mese, signor professore. Io l’ho masticato solo per una settimana;ma, allora, era più piccolo. É stato Weisz che ha portato il primo pezzo; e fu allora che fondammo la società. Suo padre l’aveva portato, quel giorno, con lui su una carrozza pubblica…
I vetri delle portiere erano appena stati messi, e lo stucco era ancora un po’ molle… Senza farsi vedere, Weisz grattò quanto più stucco poté… così forte che, a momenti, si rompeva l’unghia. L’indomani, un vetro della sala di solfeggio, qui a scuola, si ruppe; io venni nel pomeriggio ed attesi il vetraio fino alle cinque… Infine egli venne…
Io gli chiesi gentilmente di regalarmi un poco di stucco… Egli non mi rispose, perché non poteva parlare, avendo la bocca piena… Però mi fece un muso!"…Scandalizzato, il professore aggrottò le sopracciglia: "Che espressioni sono mai, codeste?! Solo le bestie hanno il muso!" "Scusi, signor professore. Volevo dire: mi fece un viso!… Io, per nulla intimorito, gli andai più vicino, e gli dissi che mi permettesse di star a guardare come faceva a mettere il vetro… Egli mi fece segno di sì, con la testa. Allora io stetti li a guardarlo. Quando ebbe finito di mettere il vetro, raccolse i suoi ferri e se ne andò. Allora… allora… io… m’avvicinai alla finestra e… e… grattai lo stucco!…
Ma non era per me… non era per me!… Io lo presi… per la società!"…
E, a sua volta, scoppiò in pianto."Non piangere!" ordinò il professore.Weisz, che si stiracchiava nervosamente i bottoni della giacca, imbarazzato come nessun altro, ritenne suo dovere aggiungere: "Piange sempre per niente!"… Kolnay continuava a singhiozzare da spaccare il cuore di una pietra. Il compagno gli sussurrò :"Non piangere più!"
Ma non aveva ancor terminato di dire così, che anche lui prese nuovamente a singhiozzare.Questo spettacolo, ottenne lo scopo di commuovere un pochino il burbero professor Racz. Non sapendo come comportarsi, egli lanciava delle grosse boccate di fumo nell’aria. Ad un tratto, quando nessuno se l’aspettava, l’elegante Csele s’avanzò verso il tavolo dietro cui sedeva il professore, deciso a mostrare una romana fermezza di carattere come aveva fatto Boka recentemente sul campo, e disse, con voce risoluta: "Anch’io ho portato dello stucco alla società". "Benissimo, cioè: malissimo! E dove l’hai preso?" "A casa mia" rispose Csele. "S’era rotta la vaschetta dove fa il bagno il canarino. Mia madre la fece riparare con dello stucco, ma io lo levai subito. Quando Ciccio fece il bagno, l’acqua si riversò tutta sul tappeto. Ma quale bisogno c’è, dico io, che un uccello faccia il bagno?
I passeri non si lavano mai, e sono sempre puliti!"… Il professor Racz lo fulminò con un’occhiata."Tu sei troppo di buon umore, Csele!"… gli disse, con voce minacciosa. "Ma non lo sarai più tra poco, vedrai!…
Continua, Kolnay!" Kolnay, ancora tutto scosso dai singhiozzi, si pulì il naso. "Che cosa devo dire, signor professore?" chiese. "Come vi siete procurati il resto". "Csele glielo ha detto or ora, signor professore!…
E poi, l’altro giorno, la società dette cinque lire a Weisz perché ne procurasse ancora"… "Ah! Voi lo comperate, anche?!" "Giammai!" protestò vivamente Weisz. "Solamente, come Kolnay le ha detto prima, mio padre mi aveva portato con sè in carrozza, ed io avevo grattato un po’ di stucco. Era di quello buono, chiaro, malleabilissimo…
Allora la società mi dette cinque lire perché prendessi ancora una volta la stessa carrozza. Mi feci condurre fino alle porte della città, e intanto grattai lo stucco da tutt’e due le portiere. Poi ritornai a casa a piedi". "Fu certamente quel giorno che t’incontrai davanti alla Scuola Militare"… "Sissignore: proprio quel giorno". "Io ti dissi qualcosa, ma tu non mi rispondesti"…Weisz abbassò la testa e disse tristemente:"Avevo la bocca piena di stucco!".
In quella, Kolnay riprese a singhiozzare.Weisz s’innervosì ancora, e nuovamente prese a strapparsi i bottoni.
Come prima, egli disse, all’indirizzo di Kolnay:"Piange sempre per niente!" Ma così dicendo, anche lui si rimise a piangere. Il professore si alzò e cominciò a passeggiare avanti e indietro per la sala, scuotendo la testa in atto di disapprovazione. "Una gran bella società, non c’è che dire!" esclamava.Infine ricominciò con le domande: "Chi avete detto, dunque, che è il presidente?" Queste parole sortirono l’effetto di far cessare i singhiozzi di Weisz.
"Sono io!" rispose fieramente. "E il cassiere?" "É Kolnay". "Dammi tutti i soldi che sono rimasti!"
"Ecco… ecco!". E Kolnay si mise a frugare nelle tasche, che, tra parentesi, non avevano nulla da invidiare a quelle di Csonakos, per la loro profondità e per la varietà ed il numero di oggetti contenuti. Una dopo l’altra, trasse fuori e posò sul tavolo dal tappeto verde diverse cosette: prima, un biglietto da cento lire, poi, un po’ di moneta, infine, due francobolli, un biglietto postale, due marche da bollo da venti lire ciascuna, otto pennini tutti nuovi ed una grossa biglia di vetro. Il professore contò scrupolosamente il denaro, sempre con aria severa. "Dove avete preso questi soldi?" "Sono quelli delle quote sociali. Ogni socio paga dieci lire per settimana". "E perché avete bisogno di soldi?" "Bisogna pure che si raccolgano le quote: tutte le società le raccolgono. Weisz, anzi, ha dovuto rinunciare anche alla sua indennità di presidente"… "A quanto ammonta questa indennità?" "Venti lire alla settimana, signore. I bolli, invece, sono io che li ho portati. Il biglietto postale lo dette Barabas, e le marche da bollo, Richter. Egli le ha… le ha… a suo padre… le ha"…"Le ha rubate! Non è vero, Richter? "Richter s’avanzò, con gli occhi bassi.
"Le hai rubate, eh?!" Il ragazzo fece segno di sì. Allora il professore si mise a gridare: "Quale corruzione, mio Dio, quale corruzione! Chi è tuo padre?" "Il dottor Ernesto Richter, avvocato al tribunale. Ma la società ha restituito subito le marche da bollo". "Come sarebbe a dire?" "Ecco: dopo aver rubato i bolli a papà, ebbi paura di venire scoperto; lo dissi in assemblea e la società mi dette venti lire perché comperassi un’altra marca da bollo. Io la comperai, e stavo rimettendola al suo posto quando il babbo mi sorprese… e non stavo rubandola, stavo restituendola… Il babbo, credendo che volessi rubarla, mi dette un sacco di botte.." Ma, sentendo posarsi su di lui lo sguardo di riprovazione del professore, rettificò: "Mi corresse severamente". Poi, quando ebbe terminato di "correggermi", gli venne il pensiero che il bollo non fosse suo e che io fossi andato nel suo studio per qualche altro scopo, e allora mi "corresse" nuovamente. Infine mi chiese dove avevo preso la marca da bollo. Io ebbi paura di dirgli la verità, perché lui mi avrebbe "corretto" di nuovo, se avesse saputo… Allora gli dissi che me l’aveva regalata Kolnay.
Lui mi ordinò di renderla subito a chi me l’aveva data, perché, diceva, sicuramente quello l’aveva rubata a qualcuno. Io riportai il bollo; ed è così che la società ne possiede due, ora."
Ma perché ne avete comperato una nuova?" chiese il professore, dopo un istante di riflessione. "Sarebbe bastato restituire la prima…" "Non era più possibile" rispose Kolnay, invece di Richter. "Le avevamo già impresso dietro il timbro della società.""Il timbro?! Ah, c’è anche un timbro!… E chi l’ha?" "É Barabas il guardasigilli."
Barabas dovette farsi innanzi a sua volta. Lanciò uno sguardo folgorante contro Kolnay perché quello non stava bene se non lo cacciava nei pasticci ogni volta che poteva, e perché c’era ancora della ruggine fra loro a causa del famoso cappello del giorno delle elezioni presidenziali sul campo. Indugiò più che poté "lo diciamo a suo onore" nella speranza di salvare il sacro sigillo; ma dovette, infine, cedere a forze maggiori, e consegnare all’insaziabile tappeto verde, nello stesso tempo, timbro e tampone dell’inchiostro. Un così bel timbro di caucciù!…Il professore ne esaminò attentamente l’iscrizione: SOCIETA’ DEI RACCOGLITORI DI STUCCO "BUDAPEST."
E scosse la testa, nascondendo un sorriso negli angoli della bocca. Barabas lo vide, però, e credette di potersi permettere, in grazia di quello, di allungare un braccio per riprendersi il timbro. Ma il professore non fu di quel parere:"Sarebbe bella!" gli disse."Signor professore" disse allora Barabas solennemente: "io ho giurato di difendere l’emblema della società anche a costo della mia vita!"
Per nulla intimorito, il professor Racz intascò il timbro, ed ordinò per soprappiù, perentoriamente:"Silenzio!"Ma Barabas era lanciato, ormai. "Ebbene, poiché è così, prenda anche la bandierina a Csele, per favore. Tanto non serve più.""Ah! avete anche la bandierina? Dammela subito!" ordinò a Csele. Questi ficcò la mano nella tasca interna della giacca e ne levò una minuscola bandiera fissata ad un filo di ferro. Anche questa, come quella del campo, era stata fatta da sua sorella. Di regola, di tutto ciò che era lavoro di cucito s’incaricava lei, pazientemente, poichè era una signorina e non si poteva obbligarla a schiaffi come una sorella qualunque; ma lei faceva tutto di molto buon grado, per fortuna. La bandiera portava i colori nazionali ungheresi: rosso, bianco, verde; e questa iscrizione a lapis copiativo:SOCIETA’ DEI RACCOGLITORI DI STUCCO, – BUDAPEST – VOLIAMO GLORIA E LIBERTA’. "Eh? Chi è, chi è" si mise a gridare il professore "chi è quell’asino che ha scritto "voliamo" invece che "vogliamo?" Dove è la "g?" Dove l’avete lasciata la "g?!" Nessuno rispose. Allora, con voce doppiamente tuonante, ripeté la sua domanda:"Chi è quell’asino?"Csele ebbe un’idea: l’errore d’ortografia era opera di Barabas; ma perché denunciarlo? Egli rispose dunque, con voce timida:"Asina, signor professore: asina. É stata mia sorella.
"E si mise ad ingoiar saliva. La bugia non è certo una bella cosa, mai; ma almeno lui aveva salvato con quella — era proprio il caso di dirlo — l’onore del compagno. Pensate: un ragazzo di terza ginnasio che scrive "vogliamo" senza la "g!" A questa affermazione, il professore non aggiunse nulla. Ed allora i ragazzi cominciarono a parlare senz’ordine. "Scusi, signor professore, ma è poco onesto da parte di Barabas di aver tradito la bandiera!" disse Kolnay, pieno d ira.Barabas si difese energicamente: "Ce l’ha sempre con me, quello lì! Dal momento che io non ho più il timbro, la società è automaticamente dissolta. E la bandiera non ha più ragione d’essere, neanche lei." "Silenzio!" gridò il professore, per mettere fine a quella discussione inutile. "V’insegnerò io a stare al mondo!
A partire da questo momento, la società è dissolta, e non voglio più, assolutamente, sentirne parlare. Avrete ciascuno un bel sette in condotta, e Weisz, che è il presidente, sei. Sia finita così!" "Scusi, signor professore" interruppe timidamente Weisz. "questo era l’ultimo giorno che io rimanevo in carica. All’ordine del giorno dell’assemblea generale, che doveva tenersi proprio oggi, c’era l’elezione del nuovo presidente, mio successore…""E Kolnay era l’unico candidato eleggibile…"aggiunse Barabas, con un sorriso trionfante.
"Questo non m’interessa" dichiarò il professor Racz.". Domani sarete trattenuti un’ora in più, per castigo.
Adesso potete andare.""Grazie!…" dissero in coro i ragazzi; e si diressero verso la porta. Ma Weisz, col favore della confusione, allungò una mano per impossessarsi dello stucco che era rimasto sul tavolo.
Però il professore vigilava, e gli gridò: "Lo vuoi lasciar stare, sì o no?!" Il ragazzo assunse un’aria innocente, e chiese:"Non possiamo riprendere il nostro stucco?" "No. Anzi: chi di voi ne ha ancora, è pregato di metterlo fuori subito, se vuole evitarsi una punizione severissima!" Leszik, che finora aveva assistito restando muto come un pesce, trasse di bocca un altro grosso pezzo e, senza dir niente, lo attaccò al blocco sociale, col cuore gonfio dal dispiacere e le dita impiastricciate."Non ne hai più?" Per tutta risposta, egli spalancò la bocca, affinché l’insegnante vi guardasse. Ma il professore non guardò; prese il suo cappello e disse: "E guai a voi se sento ancora parlare di società! Ora andate!" Muti e rassegnati gli scolari presero ad uscire. Solo Leszik, che non aveva potuto ringraziare prima con gli altri, avendo la bocca piena, lo fece ora, timidamente:"Grazie, signor professore."
Il professore se ne andò e i membri della società che aveva conosciuta or ora una così triste fine, restarono soli nel corridoio, guardandosi l’un l’altro sconcertati. Boka li raggiunse, e Kolnay gli fece una breve esposizione di quanto era accaduto."Meno male!" rispose questi. "Io credevo già che qualcuno avesse tradito il campo, rivelando ogni cosa al professore." E trasse un sospiro di liberazione.
Frattanto, Nemecsek, che era rimasto un po’ in disparte, si avvicinò al gruppo, e disse, a voce bassa:"Guardate qui! Intanto che il professor Racz strillava, io me ne stavo presso la finestra… Il vetro doveva essere stato messo da poco, e…" E mostrò una pallina di stucco. Gli altri lo guardarono pieni di ammirazione.
Weisz, con gli occhi brillanti, disse: "Finché noi avremo dello stucco, avremo anche una società! Signori: l’assemblea generale si terrà oggi sul campo." "Al campo! Al campo!" gridarono tutti in coro.
E si precipitarono di tutta corsa giù per lo scalone.


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