Luca Di Leonforte
I Pearl Jam sono cresciuti. La loro musica è cresciuta. Il loro pubblico è cresciuto. Ma il loro modo di esprimersi è rimasto sempre uguale. Ed è un modo di esprimersi che non ha tempo, perché il grunge è morto, ma i Pearl Jam non sono mai stati veramente grunge. A dirla tutta il grunge non è nemmeno un genere musicale ben definito, ma è principalmente un’indicazione geografica di un tipo di rock sviluppatosi a Seattle. Lo stile dei Pearl Jam deriva direttamente da quello che viene definito classic rock: che poi sarebbe quel sound che dai Doors, da una parte dell’opera dei Beatles, dai Rolling Stones arriva a Bruce Springsteen, R.E.M. e U2 attraversando Who e Neil Young. Il rimanere sempre uguali a se stessi per i Pearl Jam non è per nulla un fattore negativo, anzi. La loro è semplicemente una scelta dettata dal fatto che quello è il modo con cui riescono ad esprimersi meglio, e dato che si esprimono in modo eccellente non vi è alcun motivo per andare su altre strade. La loro coerenza musicale rispecchia poi in pieno la loro immagine. I Pearl Jam sono come dei cugini maggiori di cui ci si può fidare e con cui ci si può anche divertire. Non sono gli sporchi e cattivi Nirvana che ti portano sulla cattiva strada, ma non sono nemmeno i miti e noiosi U2 che ti richiamano se bevi una birra di troppo. Sulla rivista on-line Soft Revolution Margherita Ferrari descrive così Eddie Vedder: «è il coetaneo sobrio che ti tiene i capelli mentre gli vomiti inavvertitamente sulle scarpe». Perfetto! Prendendo in prestito la situazione, si potrebbe immaginare che in quel frangente Kurt Cobain è al bancone che se ne frega e continua a bere, mentre Bono Vox insiste per chiamare i genitori.
Sia musicalmente che come immagine i Pearl Jam sono, dunque, rassicuranti. Ascoltando Lightning Bolt, l’ultimo disco pubblicato qualche mese fa, si nota come non è poi così distante da Ten, eppure da allora sono passati ventidue anni e dieci album. Ma la vicinanza al loro primo lavoro non comporta, come verrebbe da pensare, un suono vintage, vecchio, passato. Semmai Lightning Bolt ha meno (molto meno) carica espressiva ma il sound è normalmente attuale e questo per via di quel linguaggio classic rock di cui si è già detto: se il grunge, infatti, è anni ’90, il classic rock non ha confini temporali. Certo c’è da dire che le nuove canzoni non hanno l’effetto sconvolgente di quelle di vent’anni fa: le ballate di oggi non sono struggenti come Alive, Daughter o Immortality. Subentra come una sensazione di abitudine ai testi graffianti di Vedder e alla sua voce profonda. È come quando un amico più grande ti racconta le sue avventure da ragazzo: all’inizio sei rapito da quelle storie, dal suo modo di raccontarle, dal suo gesticolare ma poi col tempo inizi ad abituarti a quei racconti e l’amico, crescendo, ha sempre meno avventure da riferire.
Questo loro essere rassicuranti, essere sempre gli stessi, era l’accusa maggiore che negli anni ’90 veniva rivolta ai Pearl Jam. Accusa che di solito proveniva da chi a loro preferiva i più camaleontici Nirvana. Il dualismo fra le due band rappresentava in quegli anni una nuova versione dell’eterna opposizione fra Beatles e Rolling Stones: con i Pearl Jam che univano l’immagine pulita dei Beatles con la monotonia stilistica degli Stones, e i Nirvana che fondevano il bisogno di sperimentare dei Fab Four con l’aspetto rude di Jagger e compagni. Ma se negli anni ’60 John Lennon e Mick Jagger erano amici fra loro, lo stesso non si può dire di Eddie Vedder e Kurt Cobain: non che i due abbiano mai avuto degli scontri, ma di certo non si stavano simpatici. In un’intervista rilasciata alla rivista Rolling Stone pochi mesi prima della sua scomparsa, al giornalista che gli chiedeva un’opinione sull’altro grande gruppo di Seattle, Kurt Cobain risponde: «Sono una rock band che va sul sicuro, un gradevole gruppo rock che piace un po’ a tutti». L’affermazione è forte considerando il fatto che Cobain, in passato molto duro nei confronti del collega Eddie Vedder, aveva subito prima affermato che avrebbe dovuto criticare non loro ma la loro casa discografica, responsabile di «venderli come grunge». Per alcuni un pregio, per altri un difetto, questa loro coerenza musicale. Più semplicemente una caratteristica. Una caratteristica che negli anni ha prodotto Release, Jeremy, Why Go, Elderly Woman Behind the Counter in a Small Town, Better Man, Pilate. Una bella playlist per riempire quella cartella del lettore mp3 nominata “Gradevole gruppo rock che piace un po’ a tutti”.