Sándor Kopácsi, Abbiamo quaranta fucili, compagno colonnello: i ricordi di Sándor Kopácsi, questore di Budapest nel 1956 (già In Nome della Classe Operaia, E/O, Roma 1979) , testimonianza raccolta da Tybor, traduzione di Angela Trezza, postfazione di Aldo Natoli, E/O, Roma 2006, pp. 419.
Un libro di memorie che sembra un giallo: questa è la prima impressione che coglie chi inizia a leggere questo libro. Esso narra l’ascesa e la caduta di Sándor Kopácsi, nato tornitore in provincia e diventato, sotto il dominio comunista, questore della capitale ungherese, Budapest. La sua folgorante carriera sotto l’ala del partito sembra incarnare la metafora di una sorta di “sogno sovietico”, in cui si avverte la forte competizione ideologica con quello americano. Tornando al libro, la vicenda intorno a cui ruota tutta la storia e da cui si dipanano le trame dei vari personaggi coinvolti è la rivolta di Budapest del 1956, una rivolta contro il regime sanguinario di Matyas Rákosi, esponente del comunismo di matrice staliniana. Anche se in maniera molto ridotta, è necessario inquadrare la rivolta nel contesto generale dell’epoca: con la demilitarizzazione dell’Austria (1955) e la successiva dichiarazione di neutralità, si viene a creare una sorta di “cordone neutrale” (Austria e Svizzera) che divide il blocco della Nato e, di conseguenza, aumenta il valore dell’Ungheria per la sua posizione strategica. A questo va aggiunto il [moderato] atteggiamento di destalinizzazione attuato da Nikita Chruščëv a partire dal 1953, la “via polacca al socialismo” iniziata nel 1956 da Gomulka (e terminata con la strage di Poznan) e l’espulsione di Imre Nagy – punto di riferimento di una corrente che, all’interno delPartito Comunista Ungherese, mirava all’apertura del paese all’Occidente (con la proposta uscita dal patto di Varsavia) e ad alcuni principi democratici – dal partito. La rivolta scoppia sull’onda di questi avvenimenti, chiedendo a gran voce il reintegro di Imre Nagy e la partenza dell’Armata Rossa (presente in Ungheria dal 1944). Kopácsi si muove tra le strade della città, cercando i “fascisti controrivoluzionari” (così erano stati bollati i rivoltosi dai dirigenti del partito), ma – imbattendosi soltanto in operai, studenti, gente comune che chiede solo la fine di un regime di terrore che ai più risulta tanto incomprensibile quanto terrificante – egli si muove come in un giallo, cercando di arrivare alla verità, sfuggente agli inizi quanto drammaticamente nitida nella fase post – rivoluzionaria. Il libro sembra diviso in due parti, vi è cioè un prima e un dopo la presa di coscienza da parte del protagonista: un prima in cui Kopácsi crede davvero che una società più giusta sia possibile seguendo gli ideali del comunismo e un dopo, invece, in cui si rende amaramente conto che la “società giusta” tanto agognata non si potrà mai realizzare per l’impedimento opposto dal centro del mondo comunista, cioè Mosca, la quale non intende fare altro che tenere sotto la propria egemonia gli stati del Patto di Varsavia, anche a costo di provocare uno spargimento di sangue e soffocare con la forza le richieste di maggiore democrazia del popolo ungherese (probabilmente per paura di una disgregazione dell’intero blocco comunista in Europa Orientale). Infatti, la carcerazione del governo sorto all’indomani della rivoluzione e l’occupazione militare sovietica del paese non fanno altro che confermare l’idea di una dittatura creduta morta con Stalin, ma che in realtà non aveva ancora finito di mostrare il suo lato peggiore.