Si tratta di una casa molto bella, facile da amare a prima vista: in un edificio fine '800 (o magari anche più antico, non so valutarlo), molto luminosa, il balconcino affacciato sulla via, un grande (e inutile, ma vabbe') salone da pranzo, una bella cucina e un bagno spazioso.
Ma quello che mi ferisce è che quella casa è il luogo che mi ha accolta in un periodo in cui il passato e il futuro erano neri, e mi ha un po' curata, o meglio mi ha aiutata nella mia guarigione. Nell'estate del 2009, quando ci sono entrata per la prima volta, ero ancora nel pieno dell'anno più brutto che abbia mai passato sul lavoro. Poi, pian piano, le permanenze in quell'appartamento hanno scandito la mia risalita: nell'inverno successivo già ero in questo ufficio, e via via Levanto è diventata sempre di più un luogo di vacanza e sempre meno un luogo di fuga.
Ed ora quell'appartamento, in cui i miei figli sono entrati con ciuccio e pannolino, dormendo in camera con noi, e in cui adesso hanno la loro camera per conto loro e, quando si alzano, non ci avvertono, vanno direttamente a giocare in salotto.
Mi è venuta la tentazione di fare qualche foto "alla casa", ma mi sono detta no. Non voglio sterili foto di una casa che mi è piaciuta, mi bastano le foto che ho fatto lì dentro, con la luce meravigliosa di ogni ora e con la mia famiglia che ci viveva dentro.
E per carità, il nuovo appartamento dove andremo non è un totale sconosciuto: già l'anno scorso ci avevamo passato una settimana, in inverno, perché il "nostro" era occupato da sfollati di Monterosso. Sono sicura che anche a quell'appartamento, sia pure meno d'effetto, legheremo tanti ricordi bellissimi.
Però questo che lasciamo è stato il primo amore, il primo soccorso. Forse è anche giusto che me ne stacchi: non ho più bisogno di tutto quel conforto, meglio che serva a qualcun altro.
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