Sebbene l’uomo nella storia si sia sempre spostato da un luogo all’altro in cerca di migliori condizioni, le migrazioni dovute dal cambiamento climatico e dalla degradazione dell’ambiente per cause umane sono fenomeni relativamente recenti. Desertificazione, siccità, innalzamento delle acque, deforestazione e altri problemi ambientali stanno infatti mettendo a repentaglio i mezzi di sostentamento di milioni di persone. In particolare, la povertà diffusa e la mancanza di infrastrutture sufficienti a sostenere disastri ambientali rendono alcune popolazioni particolarmente fragili ai cambiamenti climatici e ai problemi ambientali.
Sebbene siano molti i luoghi in Asia, in Africa e in America a essere vulnerabili ai problemi ambientali, pochi Stati sono in una situazione particolare come le piccole isole-Stato del Pacifico.
La isole-Stato del Pacifico sono 22, raggruppate spesso in tre categorie: Melanesia1, Polinesia2 e Micronesia3. Molti di questi Stati sono identificati dalle Nazioni Unite come “Paesi meno sviluppati”4, con un Pil per capita che varia dai 530$ della Papua Nuova Guinea ai 6.820$ di Palau. L’economia è fortemente legata al territorio, le risorse d’acqua dolce scarseggiano e la terra ferma ammonta a soli 550.000 mq per tutte e 22 le isole, di cui oltre 460.000 sono di Papua Nuova Guinea. Il cambiamento climatico sta provocando un sensibile innalzamento delle acque di circa 1-2 mm l’anno5 e se non fermato avrà conseguenze irreversibili sulla società, l’economia e la politica di queste isole6.
Alcuni studiosi hanno infatti avanzato l’ipotesi che nel giro di qualche decennio l’ambiente delle isole del Pacifico possa essere talmente deteriorato da costringere i loro abitanti a migrare in massa verso altri lidi7. Questa ipotesi, nonostante sia duramente contestata per diverse ragioni, mette in luce un pericolo reale: la distruzione di interi sistemi ecologici e società a causa di seri problemi ambientali.
Il dibattito sui “rifugiati ambientali”
La situazione delle isole del Pacifico è sotto certi versi estrema, date le ridotte dimensioni del territorio, la configurazione in realtà politiche indipendenti e la fragilità dell’equilibrio ecologico locale; tuttavia, i problemi ambientali legati al cambiamento climatico provocano nel mondo, secondo alcune previsioni, lo spostamento di circa 25 milioni di persone l’anno8. Questo fenomeno di immense proporzioni è da decenni oggetto di dibattiti per sociologi, politologi, e studiosi di migrazioni, diritti umani e diritto internazionale.
La situazione è molto complicata: da una parte, il rischio che milioni di persone debbano trasferirsi da un luogo all’altro in cerca di un ambiente più favorevole è molto reale; per molte di queste persone il trasferimento non è privo di rischi e per questo motivo molti autori spingono per un riconoscimento formale dei “rifugiati ambientali” negli accordi internazionali; d’altra parte, la visione del futuro che vede territori devastati e milioni di persone in fuga all’estero è stata criticata spesso come eccessivamente apocalittica, specialmente poiché è ancora possibile prevenire molti dei disastri ambientali futuri con una politica più accorta all’ambiente nei Paesi sviluppati e una strategia di sviluppo e di adattamento al cambiamento climatico nei Paesi soggetti a problemi ambientali.
Il dibattito nelle organizzazioni non governative, nelle università e nei centri di ricerca che si occupano del legame tra migrazione e climatologia procede come segue. In molti (es. Renaud9) sostengono che migranti per motivi ambientali debbano essere considerati come altre categorie di migranti forzati e protetti come tali da trattati internazionali. Il termine “rifugiato ambientale” è stato coniato negli anni ’70 da Lester Brown, ma reso popolare da altri accademici quali El-Hinnawi e Jacobson10. Questa posizione è stata particolarmente ben accolta da media, attivisti dell’ambiente e alcune organizzazioni internazionali come il Worldwatch Institute di Washington DC poiché mette ben in evidenza, da un lato, la serietà delle conseguenze del cambiamento climatico nelle regioni più fragili, dall’altro, la mancanza di accordi internazionali per quanto riguarda questa vulnerabile categoria di migranti.
Nonostante la maggior parte delle migrazioni per causa ambientale avvenga a livello locale, il numero di migranti ambientali che attraversano almeno un confine è in crescita, soprattutto grazie al maggior numero di contatti con connazionali all’estero e all’aumento di agenzie specializzate nel favorire l’emigrazione. Tuttavia, studiosi come Hugo spiegano che molti dei Paesi che potrebbero accogliere i potenziali “rifugiati climatici” (come ad esempio l’Australia, uno dei Paesi più vicini alle isole dell’Asia-Pacifico) in realtà adottino politiche migratorie piuttosto rigide. La forte correlazione tra restrizione delle leggi sull’immigrazione e l’aumento delle attività illegali di contrabbando e traffico umano suggeriscono quindi che un mancato riconoscimento potrebbe portare ad una crescita del traffico umano ed altre attività illegali ad esso collegato11.
L’idea che la comunità internazionale deve prepararsi a movimenti di massa trans-nazionali per cause ambientali ha però ricevuto numerose critiche. Autori come Kibreab12 e Castles13, la criticano innanzitutto per la terminologia usata: creare una categoria di “rifugiati climatici” o “ambientali” sminuisce l’importanza delle altre ragioni nella scelta di migrare; la stra-grande maggioranza delle migrazioni sono infatti multi-causali, con le uniche eccezioni di coloro che fuggono da disastri ed emergenze quali alluvioni, terremoti o tsunami. In questi casi però, nonostante l’ambiente sia probabilmente l’unico motivo per spostarsi, la gestione degli spostamenti è responsabilità dello Stato o degli enti locali e non della comunità internazionale.
La seconda ragione, forse più importante dal punto di vista della politica internazionale, è che il termine “rifugiato ambientale” svaluta e indebolisce la categoria dei rifugiati politici, definiti dalla Convenzione di Ginevra del 1951 come coloro “che temendo a ragione di essere perseguitati per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o per le sue opinioni politiche, si trovano fuori del Paese di cui sono cittadini”14. Se chiunque si ritrovi costretto a lasciare un luogo per un altro è considerato rifugiato è infatti molto più difficile distinguere chi è perseguitato da coloro che invece non lo è.
Per quanto riguarda la particolare situazione delle isole del Pacifico, anche qui le opinioni sono diverse. Autori come Brown15 e Myers16 vedono l’affondamento delle isole del Pacifico come un risultato inevitabile della tendenza del cambiamento climatico attuale: le popolazioni che abitano su queste isole dovranno inevitabilmente trovare un nuovo alloggio. Ancora una volta, questa opinione è condivisa da numerosi giornali e media internazionali autorevoli come la BBC17, Reuters18 e il New Zealand Herald19.
L’ipotesi di un trasferimento di massa in seguito all’affondamento delle isole – o a un deterioramento tale del territorio da rendere impossibile la vita umana – è contestata da accademici come Mayer20 e dai rappresentanti dei governi degli Stati della Polinesia, Melanesia e Micronesia21. La principale critica è che la categoria di “rifugiati climatici” o “ambientali” rende vittime passive gli abitanti delle isole, mentre l’accento andrebbe messo sulla responsabilità dei Paesi maggiormente sviluppati nella situazione climatica odierna e sulla necessità di provvedere con progetti a lungo termine alla riduzione drastica delle cause del cambiamento climatico e con strategie per migliorare le condizioni economiche e sociali nelle isole del Pacifico, in modo da poter meglio affrontare la nuova situazione ambientale.
Come Mayer e McNamara spiegano, l’intera categoria dei rifugiati ambientali è costruita dall’Occidente a puntino nella speranza che la visione apocalittica possa in qualche maniera sensibilizzare i governi a promuovere politiche ambientali più accorte e maggiori accordi internazionali e a convincere gli increduli – come gli Stati Uniti e, fino a poco tempo fa, l’Australia – che il cambiamento climatico è un evento reale che rischia di danneggiare la vita di migliaia o milioni di persone. Tuttavia, i governi delle isole Stato del Pacifico rifiutano con forza – e l’hanno fatto con coerenza per più di vent’anni – l’idea di essere vittime deboli e passive, in attesa di protezione internazionale.
I popoli delle isole-Stato del Pacifico vogliono rimanere nella propria terra e gli appelli internazionali si sono mossi più per smuovere progetti di sviluppo, fondi e aiuti ufficiali di Stato per promuovere attività di adattamento – ovvero attività di prevenzione dei danni potenziali causati dall’impatto del cambiamento climatico. Ruoli importanti per affrontare il cambiamento climatico e la degradazione ambientale sono rivestiti da organizzazioni internazionali regionali come l’ASEAN22 e dalla solidarietà tra isole-Stato, come dimostrato recentemente il caso di Fiji e Kiribati23. La protezione legale internazionale o un rilassamento delle leggi migratorie nei Paesi circostanti non è quindi vista come una priorità. Come ha ben detto un ambasciatore di uno delle isole-Stato del Pacifico in occasione del Global Policy Forum nel 2004: “Penso che forse non è necessario che l’Australia, per esempio, allenti le proprie leggi sull’immigrazione, però forse è invece necessario che tutti i Paesi industrializzati, compresa l’Australia, diminuiscano le proprie emissioni.”
Conclusioni
Il cambiamento climatico è un fenomeno potente che già sta sconvolgendo le vite di milioni di persone. Non colpisce solo i Paesi in via di sviluppo – basti pensare alle anormali piogge in Sardegna di inizio gennaio -, ma i Paesi più poveri, con meno risorse, meno infrastrutture e con un ecosistema più fragile sono certamente i più vulnerabili.
Il caso delle isole dell’Asia-Pacifico ha recentemente attratto l’attenzione di media e accademici per la sua particolarità: con un innalzamento del mare di circa 2 mm all’anno, queste piccole isole rischiano infatti di subire danni irreparabili alla propria vita nel giro di pochi decenni.
Il dibattito su se è necessario proteggere i “rifugiati ambientali” con appositi accordi internazionali o se tale categoria è superflua è però ancora aperto. Infatti è probabile che la discussione a livello internazionale sul problema della migrazione spinta da cause ambientali sia benefica per attirare l’attenzione su un problema importante, ma focalizzarsi solo sulla questione migratoria rischia di distrarre da questioni più importanti della politica internazionale: la necessità di ridurre drasticamente le emissioni inquinanti in tutti i Paesi industrializzati e promuovere una politica più accorta di sviluppo e adattamento nei Paesi più ecologicamente più fragili.