Esplora in quanti e quali contesti il vocabolo si usi, con una successione di ragionamenti tesi a indagare quanto l’ampiezza della famiglia di casi in cui si può dire che qualcuno legge o sta leggendo qualcosa, come si possa stabilire se qualcuno legge veramente o simula, se comprende ciò che legge oppure no, se legge speditamente o compita. E questo ragionamento, il filosofo viennese, lo ritiene valido non solo per quanto riguarda il comune atteggiamento delle persone nella realtà quotidiana ma anche per le situazioni più estreme, fino a quelle oniriche e alle allucinate.
Wittgenstein fa osservare la sterminata molteplicità di usi che la parola leggere ricopre e conduce chi segue il suo ragionamento a valutare la difficoltà di dare una definizione univoca che sia valida per tutti i sensi del leggere: perché il territorio semantico del leggere, se ci si permette la metafora, ha una geografia frastagliata e disuguale – dolci colline e picchi improvvisi, spiagge piatte e abissi profondi –, è una regione diversa, smisurata e dai confini variabili, dalle ombreggiature cangianti a seconda della mutevolezza del tempo. Ma tutta questa varietà d’uso finisce però per confluire sotto uno stesso termine-ombrello: leggere.
Il filosofo propone allora, per cercare di dare una definizione univoca alla parola – è chiaramente una dimostrazione per assurdo –, di paragonare la lettura – il concetto di lettura, il significato di lettura, la prassi della lettura – a una specie di modello semplificato che funzioni da bussola per districarsi tra i sensi del leggere. Suggerisce di “ridurre” il significato del termine a un’attività all’apparenza più circoscritta, meno sfumata nei suoi sensi di quanto non lo sia la lettura così com’è nell’uso quotidiano, ma che, almeno in parte, si possa assimilare ad essa. È per cercare di fare chiarezza che il filosofo austriaco accosta la lettura alla derivazione.
Uno «legge quando deriva la riproduzione dall’originale» intendendosi per «‘originale’ il testo che legge o copia; il dettato in base al quale scrive; la partitura che suona; ecc.». È appunto tra i sensi o gli usi della parola “derivazione” che ci si imbatte in descrizioni di azioni che sono proprie della “decrittazione” e/o della “crittazione” di un testo. Gli usi di derivazione di cui Wittgenstein parla sono i procedimenti di sostituzione di caratteri alfabetici che correntemente vengono chiamati “crittografie”. Ma il vocabolo “crittografia” nel testo è evitato. Il termine crittografia è una delle parole scartate dal lessico filosofico del nostro autore.
Nei paragrafi sopra citati Wittgenstein mostra come sia possibile trascrivere in luogo di una lettera alfabetica un’altra lettera sia secondo un criterio stabilito ma anche, e addirittura, senza nessun criterio apparente o effettivo. Poi, come sempre, indica una serie di casi particolari da ricondurre alla definizione data: si immagini di aver insegnato a qualcuno l’alfabeto cirillico e la maniera di pronunciarne le lettere, quando gli si presenterà un testo in cirillico e questi lo leggerà pronunciando le lettere come ha imparato a fare, allora si potrà dire che costui compie il “trapasso” dai caratteri stampati a quelli vocali secondo le regole che gli sono state insegnate.
Questo agire, pensa Wittgenstein, è «anche un chiaro esempio di leggere (potremmo dire che gli abbiamo insegnato la ‘regola dell’alfabeto’)». Ma se questo comportamento lo si chiama derivare, si domanda Wittgenstein, ne sappiamo forse di più di quanto ne sapremmo se dicessimo che abbiamo insegnato a qualcuno come si debba pronunciare ogni lettera ed egli poi l’abbia letta ad alta voce? Naturalmente no, anzi, così facendo, invece di cogliere il nucleo duro di questo derivare ci si allontana dal raggiungerne l’“essenza” e ci si separa da essa anziché avvicinarsi ad essa.