Leicester Square
Quella mattina, quando tutti gli scaldasedie e gli imbrattacarte di Londra erano già all’opera, come d’intesa, telefonai in ufficio per sapere quale sarebbe stata la mia sede di lavoro. La fortuna mi diede una mano: Jim, l’addetto di un ottimo punto di vendita aveva dato forfait il giorno prima e si rendeva così vacante la postazione che lui occupava in una delle piazze più importanti di tutto l’ West End.
Mi presentai quindi al negozio di Leicester Square, dove un manager dai tratti somatici orientali, di nome Abraham, con fare alquanto gentile, dopo avere dato uno sguardo distratto al mio tesserino di riconoscimento, mi mostrò il deposito sul retro del negozio, dove trovai la macchina “Carpigiani”, i briks della crema-gelato, i classici coni e le barrette di cioccolato (i cc.dd. “flakes”), da servire come “optionals” infilati nella crema in cima al cono gelato. In aggiunta avevo in dotazione, proprio accanto alla macchina dei gelati, un dispensatore refrigerante con due vaschette, una per l’aranciata e l’altra per la limonata che preparavo io stesso con acqua corrente e succo concentrato.
Presi posizione sul davanti del negozio e, lindo e lieto, cominciai la mia nuova avventura di gelataio nella Brian Brook Company.
Leicester Square è una piazza poco distante da Piccadilly Circus, da cui vi si accede percorrendo di seguito due brevi, ma commercialmente importanti stradine: Coventry Street e New Coventry Street. La unisce a Trafalgar Square, invece, in direzione sud, Saint Martin’s Place, un ampio viale ai cui lati, tutto attorno alla National Gallery, si trova un’altra categoria un po’ speciale di street’s traders: i pittori girovaghi!
Studenti dell’Accademia delle Belle Arti di Londra e dintorni, o dei Licei Artistici di tutto il mondo, semplici appassionati, dotati nell’arte della pittura e della ritrattistica; giovani artisti emergenti e vecchi artisti decaduti; aspiranti artisti o presunti tali, tutti convergono in quest’angolo di Londra ad offrire ai passanti il risultato della loro ispirazione sulla tela, per una spesa che può variare da poche sterline per un ritratto o una caricatura eseguiti seduta stante, a spese più impegnative per quadri in esposizione di svariati stili e soggetti, con la speranza di lasciare ai propri discendenti, magari l’equivalente di un Van Gogh; anche se pochi, ad onor del vero, avevano il coraggio ed il fiuto affaristico di investire e scommettere sul talento pittorico di quegli sconosciuti, anonimi espositori; e non di meno, è certo che tutti, compresi i semplici curiosi, respiravano una boccata d’aria autenticamente bohemienne poiché, al di là della spessore artistico di quei pittori non stanziali, i passanti non mancavano di apprezzare l’abilità, la disinvoltura ed insieme la libertà con cui essi esprimevano nella loro arte i propri patemi esistenziali, reali o presunti che fossero.
Nelle più immediate vicinanze di Leicester Square vi è però tutto un pullulare di botteghini, teatri, pubs, discoteche, ristoranti, clubs, bar e ritrovi, uffici di cambio e negozi di abbigliamento; questi ultimi, per lo più, sono di proprietà di commercianti indiani e pakistani, aperti sette giorni su sette, dalle nove del mattino sino a notte inoltrata. La presenza nell’area dei molteplici uffici di cambiamonete era una sicura attestazione della cosmopolicità dei frequentatori che questo spicchio di Londra all’epoca attirava a sé.
Tra i numerosi locali pubblici, ognuno ha la sua propria particolarità. Ad esempio il “Cafè Paris”, dietro la sua apparente normalità, custodisce un segreto noto solo ad una cerchia ristretta. Esso è frequentato da donne che, superata l’età in cui sono desiderabili dai maschi ma non ancora quella in cui esse li desiderano, vi si recano in alta toeletta per farsi adescare da qualche, più o meno, aitante giovanotto disposto a fargli scordare per qualche ora la loro solitudine ed il loro tempo, forse trascorso via inutilmente o troppo in fretta, in cambio di una lauta mancia; oppure “The worm”, ritrovo per omosessuali e lesbiche; il “Cokney Pride”, dove, oltre all’immancabile birra, scorre anche la musica tradizionale londinese.
La mia conoscenza di quei luoghi fu graduale e così quella delle persone che solitamente li frequentavano: gli immancabili ed ineffabili street’s traders.
I primi che ebbi modo di osservare, sin da quel primo lunedì mattina in cui la segretaria della B.B.C. mi aveva indicato Leicester Square come“ your first picth”, fu un gruppo di barboni (o “trumps” che chiamar li si voglia), che sostavano assai spesso su delle panchine, disposte a cerchio, proprio al centro della piazza, di fronte alla mia postazione.
Le panchine erano disposte a ridosso di un’aiuola circolare dei cui fiori si prendeva cura Mary, una ragazza senza età, dai capelli scuri e radi, e dai denti neri e spezzati. Venni a sapere di lei, più in là, che da giovane era stata cameriera a Buckingham Palace e che l’avevano cacciata per il suo vizio di bere, o di rubare; o forse a causa di una gravidanza indesiderata; gli amici del suo gruppo la chiamavano scherzosamente “Queen Mary” o semplicemente “Queen”. Con lei ebbi dei contatti più frequenti, in quanto era ghiotta di gelati che io, quando mi era possibile, le passavo gratis, pregandola di non farne cenno con gli altri che pure, non di rado, per lo più da sobri, presero a farmi dei cenni di saluto passandomi accanto o in lontananza dalla loro “corte”.
Ad eccezione di Miss Rambling, un’anziana signora paralitica che si destreggiava con la sua carrozzella nel traffico londinese, meglio di una campionessa di gymkhana, la quale era rigorosamente astemia, gli altri, compresa Mary erano dei forti bevitori; anzi bevevano alcolici al posto e più di ogni altra bevanda liquida, compresi acqua e latte. Non tutti erano peraltro giunti allo stadio terminale dell’alcolismo.
Max, per esempio, ci stava arrivando piano, piano ma inesorabilmente. Gli era sempre più difficile “agganciare” anche al Cafè Paris, da cui ritraeva la sua unica fonte di reddito.
Da ragazzo, come dimostravano certe sue foto giovanili che mostrava con orgoglio, assomigliava in modo spiccicato a Clark Gable e di quella originaria bellezza gli era rimasto in viso un alone lontano, contraddistinto dai baffetti neri, ancora ben curati e sottili, su un labbro vagamente sensuale. Ma quando faceva gruppo con i barboni, con la barba ispida sulle guancie rossicce e gli abiti spiegazzati, sembrava più l’ombra di se stesso che quella del mito americano di celluloide cui aveva somigliato in gioventù.
Max si era giocato alle corse, una ad una, tutte le proprietà ereditate dalla sua famiglia. Mi parlava spesso di corse di cavalli e talvolta, nel trasporto del suo raccontare, diceva con rabbia che ce l’avrebbe fatta a fare “centro” ed a riscattare almeno una casetta di campagna, nel Galles, dove si sarebbe finalmente ritirato per una tranquilla e dolce vecchiaia.
Gli altri, per la maggior parte, erano però assai più malconci e trasandati. Capelli senza cura, faccia nera, di quel nero che solo la strada può dare; abiti sempre sporchi e sdruciti; pantaloni senza cinta e scarpe senza lacci, segni del loro frequente entrare ed uscire da luoghi di ricovero coatto, se non proprio dalle regie galere inglesi.
Avevano sempre nelle mani o nelle tasche della giacca l’immancabile bottiglia di liquore o di vino, oppure, nei periodi di magra, di un intruglio che essi chiamavano “sloppy drink”, o più semplicemente “slop” di cui non riuscii mai a capire esattamente di quali ingredienti fosse composto.
“ Una roba”- mi disse una volta Joe, un ex-pugile suonato, – “ che quando la bevi, ti uccide gentilmente!”.
Un altro che si distingueva dal gruppo era “Old Jerry”, uno che si vantava di avere lasciato una gamba in non so bene quale battaglia e mostrava sul petto, fieramente, numerose decorazioni delle guerre imperiali britanniche cui aveva preso parte. Mi salutava sempre allegramente ed era l’unico che beveva sempre e solo whiskey.
Un giorno, dopo tanto che non lo si era visto in giro, mi disse che era fuggito dal “ricovero”, dove certi suoi parenti lo avevano fatto rinchiudere. Ai miei perché incuriositi aveva risposto che gli rubavano tutti i soldi della pensione e non gli lasciavano neanche gli spiccioli per un goccio di wiskey e che lui, finchè campava, voleva vivere libero di fare ciò che gli andava, dopo tante che ne aveva viste e scampate; e toccandosi significativamente la protesi, claudicante ma allegro, raggiunse i suoi compagni che già lo chiamavano dalle panchine di fronte, pregustando in gola una sorsata di whiskey di marca.
Più misterioso era invece “Colby”, un gallese ancora prestante, nonostante conducesse quella vita errabonda oramai da svariati anni. Si diceva di lui che fosse stato al servizio della “Metropolitan Police”. Capitò una mattina che passasse per la piazza una banda della “Salvation Army”, con grande spiegamento di suoni di trombe, tamburi e di canti inneggianti alla Regina, agli eroi nazionali, a Dio Onnipotente ed alla Misericordia Divina, con in testa i capi gallonati in alta uniforme, tronfi ed impettiti come generali, e in coda le questuanti dal viso angelico ed ispirato con i capelli raccolti in una cuffia, come tante suorine e la cassettiera per le offerte appesa al collo con la scritta “thank you”.
Colby si era accorto del sopraggiungere dell‘Esercito della Salvezza proprio mentre si dirigeva verso le sue panchine preferite, al centro della piazza. Dovette sembrargli rischioso esporsi sulla piazza, poiché, con quattro salti felini si era rifugiato all’interno del locale, andandosi a nascondere proprio dietro la macchina dei gelati. Non visto, da lì, faceva dei gestacci all’indirizzo del corteo che sfilava gioioso e glorioso, muovendo l’indice ed il medio della mano destra dal basso verso l’alto e poi incrociandoli a mo’ di scongiuro e pronunciando frasi oltraggiose ed irripetibili nei suoi confronti.
-“ L’ultima volta che mi hanno messo le mani addosso”- mi raccontò appena vide scampato il pericolo – “ mi hanno persino menato per convincermi che il latte è più buono del mio slop; ma io gliel’ ho detto, sai, che sono stufo di subire imposizioni e che non voglio essere redento da loro! Tanto più che sono una manica di maniaci sessuali e di vecchie acide rinsecchite che non servono neppure per succhiarmi l’uccello!”-
E concluse con un un’altra caterva di improperi tra cui afferrai distintamente un “all’inferno voi e tutti i pagliacci in divisa dell’Impero Britannico di Sua Maestà la Regina Elisabetta II!” E mentre pronunciava queste ultime parole era già via, pronto a riprendere la sua personale ricerca, Dio solo sa di chi o di che cosa.
Il dormitorio di questi barboni è all’aperto, sul retro delle stazioni metropolitane; Charing Cross e Victoria Station vanno per la maggiore. Si avvolgono nel cartone per proteggersi dall’umido di cui sono impregnati i muri e il suolo e per ripararsi dal vento gelido che spesso soffia dal vicino Tamigi. I più fortunati rientrano però a dormire nei quartieri periferici, in qualche umido sottoscala o in qualche sordida stanzetta, tra topi e rifiuti di ogni genere. Non di meno, preferivano tutto questo ai dormitori pubblici, per la verità non molto numerosi ma sicuramente più confortevoli, soprattutto per il fatto che tale ospitalità era subordinata all’accettazione di un programma generale di recupero e di reinserimento sociale che essi, ostinatamente, rifiutavano di assecondare.
Ve n’era anche qualcuno del tutto asociale, che rifiutava persino la compagnia degli altri barboni ed infatti lo si vedeva sempre da solo.
Uno di questi era il “gigante nero”. Era costui un giamaicano alto e grosso, sempre avvolto in un cappottaccio grigio e pesante; girava continuamente in lungo e in largo per la piazza, grattandosi immancabilmente la testona ricciuta e lanosa, oppure la schiena e le gambe e non salutava mai nessuno. Una volta, e fu l’unica, si avvicinò a chiedermi un gelato e dovette pensare che mi aspettassi i soldi, perché mi attaccò con frasi arroganti, nel suo incomprensibili dialetto giamaicano. Aveva gli occhi rossi e gonfi. Dopo la prima scarica di improperi diede un morso tremendo a quel povero gelato, pappandoselo quasi per metà. Poi, visto che io ero rimasto impassibile, pronunciò ancora qualche mala parola, con minore convinzione di prima e si allontanò. Sperai tanto di non avere mai più niente a che fare con quell’energumeno, anche per paura dei suoi indesiderabili ospiti. Ma come lo vidi, in lontananza, riprendersi a grattare, capii che non c’era alcun pericolo: le pulci gli si erano proprio affezionate.
A differenza di Oxford street, era la sera che a Leicester Square si vivevano le ore più intense. E se durante il giorno le strade erano semplicemente trafficate, di notte, in certi momenti, la marea umana che, spostandosi da un punto all’altro della London by night, si trovava a transitare nella piazza, sembrava per un attimo ondeggiare, davanti a me, come incerta se procedere o indietreggiare. Poi riprendeva il suo flusso inarrestabile, come un fiume di lava che superi il gomito di un costone scosceso, puntando finalmente a valle.
Questi veri e propri ingorghi umani si verificavano soprattutto in coincidenza con la conclusione degli spettacoli dei numerosi teatri che si trovano nella piazza, principalmente dal venerdì alla domenica. Un altro momento topico, in cui le strade si animavano vistosamente, era quello tra le 23, 00 e le 23,45, cioè nell’ora in cui, a seconda dei giorni, chiudono gli innumerevoli pubs di Londra.
Di quella immensa folla, mentre attendevo pazientemente accanto alle macchine di esaudire le eventuali richieste, mi divertivo incuriosito ad immaginare la provenienza, il censo, il livello culturale, il motivo per cui si trovavano a Londra ed in quella piazza, in quel momento.
Se mi rivolgevano la parola, per chiedere un gelato, una bibita o ancor di più un’informazione, allora era persino possibile individuare la loro esatta nazionalità: ogni popolo, a seconda della sua madre lingua, ha una particolare conformazione vocale che manifesta i suoi tratti peculiari nella emissione dei suoni della lingua inglese.
Anche l’abbigliamento e il modo di maneggiare i soldi costituivano un elemento da cui ricavare, se non altro in maniera generica, la provenienza dei miei avventori. Era usuale, ad esempio, che un inglese ti versasse l’importo del gelato (che allora costava trenta pence) rimarcando il pagamento delle singole monete da dieci o da cinque unità, mentre certi arabi preferivano pagare con le banconote, qualche volta senza neppure attendere il resto. E se gli occidentali, in genere, preferivano soddisfare la loro sete acquistando una lattina di Coca-Cola all’interno del negozio che ospitava le nostre macchine, gli orientali sceglievano di dissetarsi con l’aranciata che io preparavo giornalmente, di cui potevano osservare il contenuto sin da prima della mescita nei bicchieri di plastica trasparenti, nei contenitori in plexiglass della macchina refrigeratrice.
I nordeuropei consumavano di più, laddove i mediterranei, un po’ per il clima (comunque e sempre più rigido rispetto al loro), un po’ per il cambio sfavorevole, consumavano meno, con le dovute eccezioni, ovviamente.
Dalla mia postazione di gelataio mi sorprendevo ad osservare, non senza una certa ammirazione, la disciplina con cui gli Inglesi si mettevano in fila al botteghino per acquistare i biglietti dei vari spettacoli. Altre due cose mi colpirono in quel contesto: la fiducia e l’impassibilità che, perfino persone molto avanzate d’età, mostravano nel prenotare per degli eventi che avrebbero avuto luogo di lì a qualche anno e la determinazione irremovibile con cui le ragazze rifiutavano di farsi pagare il biglietto dagli accompagnatori.
Mi piaceva degli Inglesi anche quella vena d’orgoglio che li faceva sentire uniti nel nome della regina o della patria o più semplicemente ancora della terra dove erano nati loro, e prima ancora , i loro antenati; oppure il trasporto semplice e spontaneo con cui si alzavano in piedi a cantare l’inno nazionale o una canzone popolare all’ultimo bicchiere del Cockney Pride, quando i tre immancabili e puntuali squilli di campanello chiudevano l’orario della mescita sino all’indomani mattina.
Leicester Square costituiva una favorevole attrattiva ed un palcoscenico ideale per una serie innumerevole di artisti improvvisati ma non per questo meno abili e divertenti di tanti sedicenti professionisti dello spettacolo: mimi, giocolieri, cantanti, sunatori, danzatori e show-men vari dalle caratteristiche più disparate.
Uno di questi era “Uncle Fred”, un vecchietto che doveva il suo nome d’arte all’abilità con cui eseguiva la danza del “tip-tap”, di cui Fred Astaire, per l’appunto, era al tempo considerato l’insuperabile esecutore.
La “performance” di Uncle Fred veniva eseguita in uno spiazzo improvvisato, proprio a due passi dalla mia postazione. L’arzillo ottuagenario posava per terra un espositore di locandine teatrali in lamiera che, opportunamente privata dell’asta di sostegno, fungeva da pedana per la sua abile e veloce danza. Ed altrettanto abile e veloce, lo stesso vecchietto, subito dopo la sua danza, passava col cappello per le offerte. E non mancava mai di ritirarlo colmo di monete.
Un giorno capii che “Uncle Fred” doveva agire con l’aiuto di una vedetta, perché lo vidi piantare in asso il suo folto crocicchio di estemporanei spettatori (che immancabilmente si formava richiamato dal ritmo sonoro dei suoi passi di danza), e dirigersi svelatamente verso di me, mimando con rapidi gesti della mano destra, la richiesta di una bibita.
Sollevò appena gli occhi dal bicchiere di aranciata, che gli avevo prontamente offerto, al passaggio di una ronda di bobbies che, interdetti e sospettosi, osservavano quel drappello di spettatori ondeggiante attorno a un cartello dei lamiera rivoltato senza senso per terra.
“Uncle Fred”, in quell’occasione, mi raccontò di come, ballerino di provincia, aveva tentato senza fortuna il grande salto nella capitale. Non essendo stato capace di leccare il culo a nessuno, era rimasto nell’anonimato. E quando mi disse la sua età, volli chiedergli il segreto della sua sorprendente agilità; mi confessò che si teneva in forma con una prima colazione a base di thè, prosciutto, toasts imburrati e uovo sodo, senza alcool né fumo.
Non feci in tempo a chiedergli altro perché si allontanò, dopo avermi dato un’affettuosa e leggera gomitata di intesa, lasciandomi con quel bicchiere vuoto in mano, a pensare a come la vita ci sballotta, tra alterne fortune, spinti da una forza inarrestabile, misteriosa e lontana.