Se di solito a pranzo pasteggiavo con un ricco panino e un caffellatte, quel giorno, l’abbondante colazione consumata in ufficio mi suggerì di accontentarmi di qualcosa di più leggero.
A Londra trovare uno snack bar dove consumare un pasto veloce a mezzogiorno è quasi più facile di trovare un pub dove tracannarsi una pinta di birra. Sempre che uno non voglia unire le due esigenze e mangiare qualcosa in una Public House o Pub che definirlo si voglia.
Il mio apparato digerente, ad onor del vero, mi ha sempre consigliato di frequentare i Pubs soltanto la sera, evitando tassativamente di consumarvi qualsiasi pasto, soprattutto se sotto forma di piatto caldo. Certi nomi, dall’altisonante eufonia anglosassone, seppure all’apparenza commestibili, possono celare sorprese seriamente sgradevoli, quali, ad esempio, interiora di chissà quale razza animale, che dentro ad involucri di normale pastafoglia, si trovano vagamente e approssimativamente cucinati e impastati con vegetali colorati e mollicci, dal sapore indefinibile e dall’odore comunque insostenibile.
Questi snacks, dicevo, sono di norma di proprietà di emigrati italiani, non necessariamente di provenienza meridionale, anzi era più frequente rinvenire dietro ai loro banconi, baristi italiani provenienti dal nord Italia, con emiliani e romagnoli in testa.
Molti di loro avevano lasciato l’Italia a cavallo della Grande Guerra, per sfuggire alla leva obbligatoria prima ed alla miseria poi; altri nel ventennio, a causa del Fascismo e della goffa prepotenza della regia burocrazia, che aveva finito per soccombere definitivamente alla ragion di stato, asservita com’era al perseguimento di fini che oramai prescindevano dall’uomo e trascendevano i suoi bisogni e i suoi diritti individuali, pervenendo a sacrificare, paradossalmente, anche quello della libera iniziativa privata, vera anima dell’argine che si era selvaggiamente opposto all’occupazione delle fabbriche ed ai disordini di piazza, che furono proprio il preludio alla presa di potere da parte dell’ideologia fascista.
E tanto più ciò risaltava, se paragonato con l’efficiente, imparziale ed attenta amministrazione della società britannica, sempre volenterosamente disponibile ad accogliere nel suo tessuto produttivo quelle managerialità commerciali di cui gli Italiani si mostrano assai dotati, nel settore della ristorazione in modo peculiare.
E dell’Italia conservavano quell’idea un po’ irreale e mitica frutto più della loro nostalgica fantasia che della realtà lontana e ormai sconosciuta. E se ora, la raggiunta solidità economica del loro patrimonio in lire sterline, stemperava il ricordo delle passate miserie, il velo della nostalgia lasciava tuttavia filtrare solo quelle visioni idealistiche che il trascorrere del tempo rende più idilliache e remote.
Tali ricordi portavano gli immigrati di prima generazione a tentare un azzardato ed il più delle volte, traumatico rientro, mentre i loro figli e nipoti, inglesi di nascita o comunque cresciuti colà, fuorviati dagli stereotipi della stampa inglese sulla mafia, sulla corruzione e sui disastri della finanza italiana (tutte verità parziali e non assolute di una realtà assai più complessa e sfaccettata), preferivano pensare all’Italia come ad un luogo di vacanze un po’ particolare, come un ritorno alle origini con cui confrontare la realtà britannica di attuale e nuova appartenenza, e per poterne poi decantare al rientro, coi toni esotici e meravigliati dello straniero, insieme ed oltre le immancabili osservazioni sulle disfunzioni dei servizi pubblici e privati, sui piccoli e grandi imbrogli di un popolo ancora convinto di essere sotto il giogo spagnolo, borbonico o austro-ungarico, le ultranote delizie culinarie, le bellezze artistiche e naturali (magari abbandonate a se stesse), con in testa l’iconoclastica napoletanità di sole, pizza e mare.