Lì presi posto in fondo alla sala, all’ultimo tavolino della fila di destra che, al pari degli altri tavolini, di entrambe le file, era incassato nelle pareti laterali del locale, mentre la parete di fondo, di fronte a me, era costituita in pratica da un’unica, massiccia vetrata.
Era il mio posto preferito perché da lì potevo osservare i movimenti della strada sottostante che ora, sotto la pioggia insistente, diventava più frettoloso e incalzante, anche se non mancava chi, disinvoltamente, procedeva in jeans e maglietta, come se la sua pelle bianca e giovane, fosse stata di plastica lucida ed impermeabile.
Proprio di fronte, dall’altro lato della strada, mi è familiare la visione di un vecchio edificio che sul cornicione superiore portava la data 1861 e il nome della ditta di una compagnia di trasporti. Dentro quell’edificio, attraverso i vetri delle finestre, scorgo su diverse scrivanie in legno, cataste di cartaccia, macchine da scrivere, telefoni ed il via-vai continuo di numerose persone, che a quest’ora, cominciano a fremere per la pausa pranzo, da consumare, a seconda dei giorni e del carico di lavoro, anche in un angolo della scrivania dello stesso ufficio.
Consumo, lento e pensoso, il mio leggero pasto, osservando la pioggia sospinta dal vento scrosciare ritmicamente sulla vetrata.
Dabbasso comincia ad aumentare il trambusto: l’intensificarsi della pioggia in concomitanza dell’ora di pranzo spinge molti passanti a rifugiarsi in ogni buco disponibile.
Ma sono gli “habituès” a fare numero e movimento: gli operai, con le loro tute sporche di grasso, di polvere, di sangue da macello, si radunano di preferenza al piano superiore e parlano allegri e sguaiati di donne, di calcio e scommesse; si sfottono tra loro, sempre intercalando nel discorso colorite espressioni e parolacce; le grasse risate che ne conseguono, insieme al fumo e agli odori dei cibi caldi creano un ambiente gaio e accogliente.
Gli impiegati, più seri e composti, preferiscono stare al pianterreno. Il locale è già stracolmo quando giunge al mio tavolo un tipo di media statura, con una barbetta rada ed incolta,a chiedermi se sia libero il sedile posto di fronte al mio.
Si accomoda, incoraggiato dal mio gesto di assenso, mentre con le mani rollo una sigaretta del mio “Golden Virginia”.
Il tipo, tra un sorso e l’altro del suo “withe coffee”, sbircia ostentatamente una vistosa bionda con le cosce lunghe, bianche ed affusolate, in bella e (forse) involontaria esposizione, nel sedile di fronte alla corsia opposta nella nostra. Provo imbarazzo per i suoi sguardi troppo arditi, impudichi ed insistenti. Dalla mia posizione l’avevo già notata, con la coda dell’occhio, mentre, quando il suo sguardo incrocia quello della bionda, il “barbetta” si infila sveltamente il dito della mano destra in bocca e lo muove sensualmente tra le labbra chiuse, mimando un’immaginaria “fellatio”.
Scorgo la donna arrossire violentemente e ricomporsi istintivamente con dei movimenti goffi ma rapidi.
Il compagno della donna, fino ad allora impegnato a divorare avidamente una bisteccona circondata da patate fritte ed insalata condita con degli sbuffi di salsette rosse, rosa e bianche, ha forse sentore di qualcosa. Gli leggo sulle labbra un soffocato “what’s up?”, mentre si deterge le labbra con il tovagliolo. Mi tengo pronto a tagliare la corda, ma la donna, saggiamente, lo tranquillizza, pur restando visibilmente imbarazzata.
…….continua………