di Primo Levi non è affatto semplice. Parlare di un'opera del genere implica da parte mia un atto che va infatti ben oltre il mio compito di esprimere consensi e dissensi nei confronti di un libro, o di elargire lodi e reprimende nei riguardi dell'autore. Va da sé che in questo caso non abbia seguito la prassi consueta. Nondimeno, ho privilegiato questo volume per la recensione di gennaio in quanto esso costituisce soprattutto un'occasione di - in qualsiasi senso si voglia intendere questo termine - e l'incontro con Primo Levi ha scaturito quelle che seguono.
Ludwig Wittgenstein, nel , scrisse che "i limiti del mio linguaggio costituiscono i limiti del mio mondo". Vale a dire che se il mio linguaggio è povero, lo sarà di conseguenza anche il mio pensiero. Riprendo questa frase perché, recuperando dalla mia libreria alcuni testi sulla Shoah, mi è capitata tra le mani questa frase di Esther Cohen Dabah: "L'abbreviabile è ciò che non si può narrare, è ciò che passa per la mutilazione della memoria". Questo è un punto che merita di essere approfondito, perché se un'opera di narrativa come di George Orwell è zeppo di slogan e abbreviazioni, Primo Levi, ne , la lingua del Terzo Reich, proponendone anzi l'acrostico LTI, in analogia con i cento altri (NSDAP, SS, SA, SD, KZ, RKPA, WVHA, RSHA, BDM...) cari alla Germania di allora". , riporta dettagliatamente la realtà, allorquando descrive il grado di spoliazione linguistica nel campo di concentramento. E lo fa rilevando come il tedesco del lager fosse una lingua diversa, una nuova lingua, o neolingua appunto, rispetto al tedesco standard: "Era una variante, particolarmente imbarbarita, di quella che un filologo ebreo tedesco, Klemperer, aveva battezzato
Dal riferimento di Levi agli studi di Victor Klemperer e al suo libro LTI. La lingua del Terzo Reich si evince che la lingua non fu la semplice spettatrice della società totalitaria, ma una complice attiva ed efficace di quel potere. Collocata nel capitolo sul linguaggio, una tale affermazione trova riscontro, lo dicevamo, proprio con la tesi della Cohen Dabah, per la quale: "questo è il motivo per cui il "lavoro" fatto sulla lingua fu così importante. Il Terzo Reich dovette, infatti, impoverire fortemente il linguaggio, uniformandolo, abbreviandolo, per rendere gli esseri umani delle figure meccaniche, che si limitavano a rispondere agli stimoli del sistema, del Führer, delle SS, o di chiunque fosse capace d'imporre quel linguaggio povero, ma mortalmente rigido e manipolatore".
Venendo invece al capitolo più noto del saggio di Levi, quello relativo alla "zona grigia", l'autore torinese esamina il caso limite dei . Si tratta di unità speciali costituite prevalentemente da ebrei preposti alla gestione dei crematori. Primo Levi spiega che ad Auschwitz vi erano quasi mille ebrei appartenenti a questa Squadra Speciale, e lo fa con parole estremamente forti: "Aver concepito ed organizzato le Squadre è stato il delitto più demoniaco del nazionalsocialismo [...]. Attraverso questa istituzione, si tentava di spostare su altri, e precisamente sulle vittime, il peso della colpa, talché, a loro sollievo, non rimanesse neppure la consapevolezza di essere innocenti".
A questo punto, Levi analizza il sentimento della provata da numerosi prigionieri in seguito alla liberazione. E a colpire il lettore di queste pagine è propriamente la sensazione che queste assumano i tratti di un'invettiva diretta dall'autore . Quando Levi afferma che il peso più grande della liberazione è quello di essere sopravvissuti col sospetto di non aver fatto abbastanza per impedire ciò che è stato, viene da pensare che, se è vero che non tutti i prigionieri si siano resi protagonisti di atti violenti perpetrati ai danni di altre vittime, è anche vero che, forse, molti altri, Levi compreso, si siano sentiti responsabili di omissione di soccorso.
Concludo: nella mia vita ho letto molte opere sulla Shoah, ma rappresenta a mio giudizio una delle testimonianze più incisive e drammatiche. E vorrei chiudere volgendo ai lettori di Temperamente la domanda con cui il testo si apre, allorquando Primo Levi scrive che il suo saggio "vorrebbe rispondere alla domanda più urgente, alla domanda che angoscia tutti coloro che hanno avuto occasione di leggere i nostri racconti: quanto del mondo concentrazionario è morto e non ritornerà mai più? "
Andrea Corona