Katie è una giovane donna che ha un sogno nel cassetto: diventare una modella. Quando arriva a New York alla ricerca di agenzie fotografiche cui inviare il suo book, non potrà immaginare l'incubo in cui ben presto finirà. Rapita e portata da uomini sconosciuti, Katie subirà ogni tipo di vessazione e tortura. Data per morta dai criminali che l'hanno rapita, viene abbandonata chiusa dentro ad un baule. Ma per lei non è ancora il tempo di morire. Il tempo che le si apre davanti è invece quello della vendetta...
Una minestra riscaldata è quella che è. La può fare anche Gualtiero Marchesi, ma se è riscaldata c'è poco da fare. E' quello che possiamo dire in esergo al commento di questo film di Steven R. Monroe, che pure aveva mostrato felici ispirazioni nel suo primo "I spit in your grave" (remake) del 2010, rifacimento dell'originale di Meir Zarchi del 1978. Rifacimento molto omaggiante e che vedeva lo stesso Zarchi tra gli sceneggiatori. Monroe desidera battere il chiodo sullo stesso legno, ma questa volta chiama all'opera due sceneggiatori freschi freschi e cioè Neil Elman e Thomas Fenton, che sono però freschi fino a un certo punto, avendoli già visti all'opera in altri film del tutto secondari se non dannosi per la storia del cinema, come ad esempio "Saw IV" (2007) (Fenton) e "Mongolian Death Worm" (2010) (Elman). I due si mettono a tavolino e scrivono una storia a mio avviso pallidissima, a tratti stucchevole (a partire dalla scelta della ragazzina con il sogno di diventare fotomodella, ma su tale aspetto torneremo), e soprattutto cotta e stracotta. Lo script punta molto sulla fragilità e solitudine di Katie (Jemma Dallander) arrivata in un'anonima, fredda e impersonale New York a cercare fortuna: è una ventenne qualsiasi, carina ma non bellissima, che si suppone sia fresca di uno fra i tanti College della provincia statunitense. E' Capuccetto Rosso, e sua mamma la manda tranquillamente nel bosco senza curarsi del lupo cattivo. Lo script ci dice questo a chiare lettere e costruisce tutta la prima parte del film su tale mitema banalissimo, frusto oserei dire e che vorrebbe appoggiarsi su una critica sociale della cultura dell'immagine cui tante adolescenti odierne sono sedotte, senza tuttavia apportare nulla di originale a tale critica, ma anzi, al contrario, spostando il tutto sul piano di un conflitto maschile-femminile di un semplicismo sconcertante e anche pericoloso. Il film a tratti sembra addirittura, a mio modesto modo di vedere, strizzare l'occhio a certo cinema à la Eli Roth, con quello spostamento di luogo in Bulgaria, ambiente slavo, transilvanico, nota patria del Dracula stokeriano. Anche in questa strizzatina d'occhio ravviserei una certa ambiguità nel voler guidare seduttivamente per mano lo spettatore in territori cinematograficamente consueti, per poi procedere nell'allestimento di una seconda parte, dedicata al revenge, che vorrebbe stordire lo spettatore mediante facili identificazioni con la vittima. Se nel primo film del 2010, Munroe era riuscito a confezionare un'opera quantomeno apprezzabile, commemorativa e innovativa insieme, innanzitutto non infiltrata da ipocrisie e rimandi seduttivi di qualsiasi natura, presentandoci una protagonista a tutto tondo, e attraverso una regia sufficientemente fredda, in questo secondo esperimento il regista newyorkese si perde tra le scartoffie di Elman e Fenton, lasciando loro, purtroppo, la libertà di organizzare un gruppo di cattivi molto poco credibile. Anzi, i due sceneggiatori scivolano, rompendosi il collo, proprio sull'idea di presentarci una famiglia disfunzionale bulgara dedita al rapimento di ragazzine statunitensi per poi darle in pasto alle pulsioni ignobili di tutti i parenti di volta in volta riuniti per l'occasione. E scivolano perché già quest'idea è troppo macchinosa e bolsa, e poi perché la resa finale di tutti gli attori, così come dell'armamentario sadico che mettono in pratica, risulta molto poco efficace. Ma torniamo al tema della vendetta di Cappuccetto Rosso sui lupi cattivi, e sul conflitto maschile-femminile, così come ci viene presentato dalla poetica di Munroe. Ritengo sia questo il punto più dolente di questo film. Tutta la vendicatività femminile è rappresentata senza alcuno spessore, ed anche con un certo "maschilismo di ritorno" che si manifesta attraverso una sostanziale processo di identificazione della protagonista con la ferocia maschile. Sembrerebbe che il regista ci voglia convincere che l'unico strumento a disposizione di Katie sia un desiderio mimetico che capovolge biblicamente il male inferto a lei nel suo opposto speculare. Si tratta quindi di un'operazione di rispecchiamento narcisistico, secondo cui il femminile trova una sua linea espressiva solo nel riprendere temi maschili, anche nel sadismo. D'altra parte Katie, fin dall'inizio desiderava entrare nell'occhio fotografico dell'uomo-fotografo, solo questo la muove, e non altro. Credo sia questo elemento sottilmente e implicitamente maschilista, che ci presenta cioè una ventenne avviluppata nel desiderio dell'Altro-Maschile, l'aspetto più violento del film e che mi ha fatto cadere in disgrazia Monroe dopo la buona prova del suo precedente film. La violenza presentata dalle sequenze di tortura, soprattutto quella di lei sui maschi, prende solo il tempo che trova e diventa subito minestra riscaldata, e neanche cucinata da Gualtiero Marchesi, come dicevo, ma da un Monroe qualsiasi. "I spit in your grave 2": da evitare per i vari motivi fin qui descritti, ma in particolare per la sua colpevole ambiguità.Regia: Steven R. Monroe Soggetto e Sceneggiatura: Neil Elman, Thomas Fenton Fotografia: Damian Bromley Montaggio: Kristina Hamilton-Grobler Cast: Jemma Dallender, Joe Absolom, Yavor Baharov, Aleksandar Aleksiev, Mary Stockley, Michael Dixon, Valentine Pelka Nazione: USA Produzione: Cinetel Films Durata: 106 min.