Quali sono i giochi simbolo di uno dei generi più amati di sempre?
La storia dei survival horror che vi abbiamo raccontato in un altro articolo sul tema è fatta, come accennato proprio in quel pezzo, da una serie di titoli che in un senso o nell'altro ne hanno influenzato le tematiche e le meccaniche di gioco, definendone col loro stile i canoni principali. In questo secondo speciale vogliamo quindi analizzare in maniera un po' più approfondita proprio alcuni di quelli che a nostro insindacabile giudizio sono, o possono essere ritenuti, chi i capostipiti, chi i punti di riferimento per tutti quei videogame che possano essere ascritti alla tipologia di gioco citata.
Prima di iniziare vogliamo anche in questo caso sottolineare come inevitabilmente, vuoi per i cattivi scherzi della memoria, vuoi per ragioni di spazio, avremo certamente dimenticato involontariamente (o volutamente in certi casi) qualche titolo, e per questo ce ne scusiamo in anticipo coi nostri lettori; ma contiamo sul fatto che questi ultimi capiscano la situazione che altrimenti si verrebbe a creare citandoli tutti (un articolo dalle proporzioni bibliche e per certi versi dispersivo), e vedano questo speciale come una sorta di "guida" che attraverso un rapido escursus storico mira a ricordare alcuni dei capisaldi di un genere e a stimolare una serie di discussioni sull'argomento.
E proprio per questo motivo, bando alle ciance e iniziamo parlando di Project Firestart, un videogioco d'azione di stampo futuristico, rilasciato nel lontano 1989 su Commodore 64: per certi versi esso potrebbe essere quasi definito una sorta di Dead Space dell'epoca. Concepito e realizzato da Jeff Tunnell e Damon Slye, e pubblicato da Electronic Arts, il gioco vantava, nel suo piccolo, una storia caratterizzata da molteplici percorsi e finali, oltre a parecchi di quegli elementi tipici dei survival horror. A partire dal gameplay, il cui bilanciamento fra azione e avventura, la presenza di munizioni limitate e di un personaggio principale vulnerabile, non possono infatti che portare alla mente alcuni degli aspetti caratteristici che avrebbero poi contraddistinto i futuri titoli di genere.
Project Firestart e Sweet Home
Senza dimenticare l'atmosfera carica di tensione che permeava il prodotto, alla quale contribuivano non poco delle musiche di sottofondo di un certo livello per l'epoca, e una trama a suo modo interessante che si sviluppava anche attraverso degli articoli di giornali. Questa narrava di una missione finanziata dalla Fondazione Science System (SSF) e portata avanti da un'agenzia degli "Stati Uniti del Sistema" galattico (USS) a bordo dell' astronave da ricerca Prometheus, con l'obiettivo di sviluppare un progetto finalizzato allo scopo di produrre degli esseri umani dalle capacità fisiche straordinarie, pertanto in grado di estrarre titanio e iridio dalle miniere che si trovavano sopra alcune lune o asteroidi.
La prima generazione di questi operai geneticamente modificati si rivelava però estremamente pericolosa e quando dall'astronave Prometheus non si avevano più segnali venivano mandati alcuni agenti della SSF a indagare a bordo. A quel punto entrava in scena il giocatore, che controllando il protagonista dell'avventura doveva guidarlo lungo schermate caratterizzate dalla presenza di cadaveri, trappole e soprattutto mostri di varia natura, fino alla conclusione.
Eppure, nonostante quanto appena raccontato, il vero capostipite del genere survival viene considerato da molti appassionati un altro gioco, ovverosia Sweet Home di Capcom, realizzato per Nintendo 8bit nel 1989, non fosse altro perché è stato il gioco che anni dopo avrebbe ispirato il primo dei moderni titoli del settore, Resident Evil. Caratterizzato da una impostazione simile a quella di un gioco di ruolo, Sweet Home presentava al contempo tutti o quasi i canoni adottati successivamente da Shinji Mikami per il suo prodotto. Innanzitutto l'ambientazione: una antica e tetra magione da esplorare per cercare una via di fuga, ma piena zeppa di trappole, puzzle da risolvere e presenze minacciose.
Poi i protagonisti, un gruppo di personaggi caratterizzati ognuno da abilità proprie e accomunati dallo stesso potenziale terribile destino. Al posto del team Alpha della S.T.A.R.S. nel gioco l'utente controllava alcuni membri di una troupe televisiva incaricati di girare un documentario, più un'infermiera e una addetta alle pulizie, e c'erano principalmente dei fantasmi al posto degli zombi, ma il concetto alla base del gameplay, differenze tecniche a parte, era lo stesso del capolavoro di Mikami.
Alone in the Dark
Altro gioco ad aver ispirato Resident Evil, questa volta principalmente da un punto di vista registico e per talune meccaniche, è stato un altro dei classici del genere, vale a dire Alone in the Dark. Il titolo in questione, sviluppato da Infogrames nell'ormai lontano 1992, sfruttava una visuale in terza persona, con i personaggi e gli oggetti composti da poligoni, e i fondali invece pre-renderizzati con una inquadratura fissa, che non seguiva cioè l'azione. In pratica quando il personaggio controllato dall'utente usciva fuori dalla visuale di una telecamera si passava a quella successiva, e così via.
La trama raccontava del noto artista Jeremy Hartwood, che nella Louisiana del 1925 veniva trovato impiccato nella soffitta della sua villa, la quale, secondo le leggende locali, era infestata dalla presenza di spiriti maligni. Per la polizia, comunque, si trattava di semplice suicidio, e il caso veniva archiviato. La nipote di Jeremy, Emily Hartwood, non credeva però alle conclusioni ricavate dagli investigatori e decideva così di vederci chiaro sulla scomparsa del suo parente. Proprio nei panni della giovane o in alternativa in quelli del mitico Edward Carnby, investigatore privato ingaggiato da una proprietaria di un negozio d'antiquariato per recuperare un antico e prezioso pianoforte, il videogiocatore era chiamato a svelare i segreti della villa di Derceto e di trovare una via di uscita da essa. Il personaggio veniva gestito dall'utente attraverso l'utilizzo delle frecce cursore della tastiera che servivano per indirizzarne i movimenti, mentre tramite apposito menu era possibile selezionare, a seconda delle necessità, quattro diverse abilità attivabili premendo la barra spaziatrice. Oltre che evitati, i nemici potevano essere sconfitti con la lotta o con l'astuzia, ricorrendo a dei semplici stratagemmi. Per il resto il titolo di Infogrames puntava decisamente, per terrorizzare l'utente, sulla storia e sulle atmosfere cupe che, come confermato tra l'altro alla recente GDC 2012 da Frederick Raynal, l'autore dell'originale Alone in the Dark, possono essere talvolta più potenti dei poligoni e degli effetti speciali quando ben architettati.
Resident Evil
Quando nel lontano 1996 uscì su PlayStation il primo titolo di quella che è adesso una delle saghe videoludiche più amate, Resident Evil (o Biohazard, come è conosciuto in Giappone), nessuno avrebbe potuto prevedere che il gioco sarebbe diventato uno dei più grandi successi di sempre, e che avrebbe generato di conseguenza infiniti sequel e diversi spin-off.
La storia alla base del titolo che diede origine alla serie raccontava di strani incidenti che avvenivano nei pressi della cittadina di Raccoon City, sui monti Arklay, che avevano coinvolto gruppi di campeggiatori e di escursionisti, parecchi dei quali trovati morti sbranati.
Le autorità decidevano così di inviare sul posto un reparto speciale delle forze dell'ordine chiamato S.T.A.R.S., il Bravo team, che però spariva a sua volta misteriosamente. La successiva squadra, Alpha, giunta a destinazione sulle sue tracce, veniva quindi attaccata da misteriosi cani, fuggendo dai quali i superstiti rimanevano intrappolati all'interno di una magione piena zeppa di mostri e morti viventi. Per quanto riguarda il gameplay, esso era chiaramente pensato come una evoluzione dello schema di gioco originariamente proposto dal sopraccitato Alone in the Dark, impreziosito ulteriormente da una maggiore dinamicità e azione, da una bella trama condita da ben calibrati colpi di scena, da una grafica al passo con i tempi per l'anno in cui venne rilasciato, e da una atmosfera degna dei migliori lavori di George Romero, ai cui film sui morti viventi Mikami si ispirò fortemente, al punto, pare, di usare alcuni campionamenti di fondo (i lamenti di massa che si percepivano mentre si era in strada a Raccoon City in Resident Evil 2 e Resident Evil Nemesis, dai fan considerati i migliori della saga al pari del remake del primo episodio su GameCube) prelevandoli dalla pellicola Il giorno degli zombi. Senza dimenticare i personaggi, alcuni carismatici, altri meno, ma comunque in grado di affascinare l'utenza come nel caso dei vari Albert Wesker, Barry Burton, Chris Redfield e Jill Valentine (o il Leon del secondo capitolo). Ad oggi, a confermare l'effettivo successo della saga nel corso degli anni anche come fenomeno globale, che va cioè oltre l'universo dei videogiochi, si contano sul mercato pure diversi film, libri e gadget di ogni tipo.
Resident Evil: Le Origini - Punto Doc
Silent Hill
Se il titolo Capcom puntava su un elevato tasso di violenza grafica e su un orrore chiaro, visibile e scaturito da tragiche ricerche scientifiche, diverso era il concept che animava in questo senso l'altra saga più famosa del genere, vale a dire Silent Hill di Konami. I primi due episodi in particolare, sconvolgevano i canoni imposti dal loro rivale, cambiando le carte in tavola e imponendo nuove regole: in primis quella di incutere terrore attraverso "situazioni" non convenzionali. Il protagonista diventava così una persona qualunque, per certi versi poteva essere identificato perfino col videogiocatore stesso, e i mostri che doveva affrontare erano diversi, non nascevano da qualche esperimento genetico fallito o dall'evocazione legata a qualche rito occulto.
Essi, pur se vitalizzati da un evento particolare, per certi versi "magico" nell'accezione del termine, prendevano origine dal profondo del personaggio stesso o dalla psiche turbata di quelli che incontrava. Individui psicologicamente dilaniati da colpe, da rimorsi personali, da traumi che poi le creature che li attaccavano nel gioco incarnavano. Ma non solo, il titolo di Konami puntava pure sulla paura atavica del buio insita in ognuno di noi, dell'ignoto, del ciò che si potrebbe nascondere dietro un angolo scuro e che non si può vedere se non dopo essersi affacciati oltre a esso, o nel soffitto di casa dal quale magari giungono talvolta alle orecchie dei rumori sinistri. Quante volte da piccoli ci siamo affacciati un attimo per guardare sotto il letto, timorosi di trovarci chissà quali mostri? E quante volte il cuore ci si è quasi fermato, attimo dopo attimo, mentre la testa si avvicinava al pavimento e sotto ai nostri occhi si apriva come un moderno teatro il sipario di quel particolare palcoscenico che diventava in quell'istante la parte inferiore del giaciglio? Ecco, Silent Hill mirava a questo, trasportando l'utente subito in una città vuota, completamente solo a vagare attraverso le sue vie avvolte da una nebbia perenne che moltiplicava visivamente l'effetto di totale isolamento, teso già solo al pensiero di cosa potesse nascondersi oltre la coltre grigiastra a pochi centimetri dal suo naso.
Silent Hill: Downpour - Videorecensione
Alan Wake e Dead Space
Negli ultimi anni, come abbiamo avuto modo di evidenziare nel precedente speciale, il genere ha purtroppo svoltato troppo, a nostro parere, verso la componente action, a discapito spesso di quella più thriller. Fra le produzioni di genere ci sono però state un paio di eccezioni in tal senso (e che eccezioni): si tratta del sottovalutato Alan Wake e dell'ottimo Dead Space. Il primo, in particolare, vantava delle meccaniche di gioco che riportavano alla mente Silent Hill, per un action adventure venato da una sensazione di inquietudine che portava il giocatore verso un finale decisamente inconsueto, con una trama che prendeva spunto a piene mani dalla letteratura fantastica dei vari Lovecraft, Barker e Stephen King.
Nella piccola cittadina di montagna di Bright Falls giungevano lo stressato scrittore Alan e la moglie, Alice, per trascorrere quella che nelle sue intenzioni doveva essere una vacanza di relax, e magari un modo per ritrovare quella vena artistica che sembrava aver perduto da un paio di anni. In tal senso il cottage sul Cauldron Lake sembrava a sua volta il luogo ideale dove isolarsi dalle tensioni accumulate e ritrovare sé stessi. Ma non era così. Le affascinanti foreste simili a quelle di quel Maine più volte protagonista dei racconti di King, quelle che diventano lugubri la notte, erano infatti gli scenari da incubo in cui il videogiocatore veniva costretto a muoversi nel tentativo di ritrovare la moglie e la sua psiche. Psiche pesantemente minacciata anche per il protagonista del secondo titolo citato poc'anzi.
"Nello spazio nessuno può sentirti urlare", recita lo slogan di un classico del genere fantascientifico, ovverosia Alien. Ma a bordo di un'astronave, aggiungiamo noi, di urla se ne sentono eccome! Specie se sono movimentate come la USG Ishimura di Dead Space. Questa nave mineraria, in missione nello spazio profondo con 1187 uomini e donne di equipaggio, diventava infatti lo scenario da incubo di un ingegnere di nome Isaac Clarke, giuntovi a bordo per riparare un semplice guasto al sistema di comunicazione, che in realtà nascondeva ben altro: una terrificante infestazione aliena che aveva sterminato metà della sua popolazione e mutato il resto.
La normale realtà sulla nave era dunque stata completamente sconvolta, e tra le luci spettrali delle sale e dei corridoi si trascinavano mostri aberranti contro i quali si doveva subito combattere anche improvvisando, imparando a usare e distinguere le armi disseminate nei vari settori della Ishimura, la cui esplorazione diventava un viaggio allucinante verso il cuore pulsante di un inferno spaziale. A livello di gameplay il titolo di EA metteva assieme l'atmosfera angosciante di Silent Hill (i lunghi corridoi bui e vuoti dell'astronave, i rumori minacciosi spesso dovuti a fattori normali ma che incutevano nel giocatore tensione, etc) e alcune situazioni action-splatter di Resident Evil (i mostri presenti nella Ishimura nella maggior parte dei casi dovevano per esempio essere letteralmente dissezionati per essere eliminati del tutto o sbucavano improvvisamente dal nulla facendo sobbalzare l'utente sulla sedia), in un ottimo mix che è servito a lanciare nell'Olimpo della produzioni di genere la saga.
E proprio con Dead Space vogliamo fermarci con il nostro speciale, anche se volendo potremmo ancora parlare per ore e ore di survival citando ancora Project Zero o l'ottimo Fahrenheit. Oppure lo spaventoso Amnesia: The Dark Descent, il sottovalutato Penumbra: Black Plague o due dei più promettenti titoli del futuro prossimo venturo, vale a dire Among the Sleep e The Evil Within di Mikami. E poi quel gioiello di The last of Us. Ma davvero non basterebbe più lo spazio di un articolo.
Alan Wake - Videorecensione