I taccuini di Lorenzo Mattotti, viaggiatore per immagini (di Ivan Canu)

Creato il 31 gennaio 2012 da Lospaziobianco.it @lospaziobianco

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Li chiama i disegni della linea fragile, stanno in taccuini di formato spesso lungo e stretto, riproducendo pensieri, associazioni mentali, figure oniriche a penna che rimandano a Redon e alle forme di Ernst. Da uno di questi, due amanti che in una stanza fatta di solo letto futon e tappeto si replicano in abbracci, torsioni, sguardi, contatti, Lorenzo Mattotti ha tratto il doppio Stanze, edito da Logos, il taccuino originale a matita e il catalogo di una mostra del 2010. Quando parla, Lorenzo ha il volto e i repentini sorrisi di un giovane Bruno Ganz e un’immediata e spontanea cordialità mitigata dal carattere schivo.
È un viaggiatore per immagini e di viaggi parla volentieri con entusiasmo e sono racconti di luoghi interiori, di amici, di artisti e di vecchi e nuovi progetti.> LoSpazioBianco" />> LoSpazioBianco" />> LoSpazioBianco" height="272" width="246" alt="I taccuini di Lorenzo Mattotti, viaggiatore per immagini (di Ivan Canu) >> LoSpazioBianco" class="alignright size-full wp-image-44369" />
Ci incontriamo a Milano, dove Lorenzo torna dopo molti anni per un workshop di progettazione editoriale al MiMaster di Illustrazione, con giovani professionisti venuti per questa occasione da tutta Italia, ma anche dalla Francia e dalla Polonia. Nel parco di Villapizzone parliamo degli itinerari sul taccuino, il suo mezzo preferito per tracciare le prime impressioni, le idee veloci e dirette, che a volte diventano progetti.
Nel 2003 si è messo alla prova con un diario di viaggio ed è nato il bellissimo Angkor.

Ad Angkor sono stato inviato dalla rivista “Geo” per un numero speciale di reportage illustrati in giro per il mondo. Mi avevano destinato a Città del Messico, ma non volevo andare nel casino di una metropoli, sballottato per 15 giorni a far non si sa bene cosa. L’alternativa è stata la migliore possibile. Angkor è un’area molto circoscritta e per dieci giorni ho potuto visitare i luoghi più lontani, meno frequentati dal turismo mordi e fuggi. Per il taccuino di viaggio mi chiesero di essere molto libero, non la solita descrizione del luogo con l’illustrazione.

Immagino quanto sia molto lontano lui dal journal de voyage, che di solito ha la formuletta con il biglietto del tram, la fotografia, la strada, la persona che hai incontrato, la leggerezza dell’acquarello, del disegno veloce. Il suo è un viaggio dentro un’inedita Angkor, come se fosse la scenografia di uno spettacolo da farsi, sotto gli occhi sorridenti dei colossali buddha.

Il manierismo del carnet non mi appartiene, mi domando invece quale sia il mio valore aggiunto, perché il mio disegno sia più interessante di una foto, cosa interessi a me di questo viaggio, cosa possa fissare il mio disegno che non abbia alternativa. Quel che mi interessa è appropriarmi di un luogo, prendere quelle forme, un tipo di costruzioni, di colore e quasi ripulirli e cercarne l’essenza, farli rifarli reinterpretarli e infine, sono miei e con il disegno ho trovato la mia Angkor.

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A Parigi, luogo della seconda vita artistica di Lorenzo Mattotti, sua moglie Rina Zavagli ha aperto da alcuni anni la Galérie Martel, tappa significativa di un percorso di riflessione sull’arte della visione e della narrazione per immagini.

La galleria è soprattutto l’energia di Rina e la sua capacità di organizzare e concretizzare quelle che a volte, per me, sono suggestioni buttate lì. Io tremavo quando cominciava a organizzare e a programmare e non la ferma più nessuno, però pian piano si è sviluppata l’idea di una galleria naturalmente basata sull’illustrazione e il fumetto. A Parigi la situazione stagnava: due o tre gallerie di fumetti, una storica, quella di Christian De Bois, ma sempre quei cinque o sei nomi esposti ogni anno. Ci pareva mancasse un respiro. Era forse il momento per proporre gli artisti che ci veniva naturale esporre perché li avevamo sempre amati, le nostre passioni e gli amici di tanti anni. La seconda mostra che Rina ha fatto era dedicata a Breccia, che non si vedeva da 20 anni, quasi dimenticato. È stato un atto d’amore, il  desiderio di divulgare e far conoscere di nuovo al pubblico parigino un artista di massima grandezza, la cui memoria si stava annebbiando.

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Copertina per Internazionale (dic. 2011)

La Martel segue l’idea del viaggio di affetti: ha esposto Topor, Charles Burns, Gary Panter, Mariscal, Art Spiegelman, del quale si conosce la ritrosia verso le mostre.

Di Art eravamo già da anni amici, anche per via della mia collaborazione con la moglie, Françoise Mouly, direttrice del New Yorker.
Rina era restia a chiedergli una mostra, sapendo che non ne faceva. Il fatto curioso fu che invece lui le chiese di curargliene una, cosa che poi altri amici hanno fatto. È interessante vedere la prospettiva che Rina, in quanto gallerista, ha degli illustratori e dei fumettisti dal lato della gestione e organizzazione del loro lavoro, come lo espongono, le loro angosce e ossessioni. Interessante perché io sono come loro quando lavoro ed espongo. È questo un tempo in cui forse l’estetica è non più la tavola e lo spessore delle tecniche, l’olio, l’acrilico, le tempere, le incisioni, ma esporre la stampa digitale, i video. È un linguaggio che evolve.

Come sempre quando parla di sé, Lorenzo è schivo e ride, muovendo le mani in circoli davanti al viso come per allontanare il pensiero del sé in terza persona. Come il giorno di oltre un anno e mezzo fa, quando lo chiamai a Parigi per invitarlo a tenere un workshop al MiMaster e mi disse: cosa posso raccontare io a degli studenti? Non era sicuro di essere interessante e la parola che per mesi pronunciava riguardo a un suo ritorno all’insegnamento dopo anni era: angoscia. L’insegnamento comporta a un artista leggersi e farsi leggere.

Nei giovani che si affacciano alla professione, riconosco l’ansia di emergere, di lavorare, di pubblicare che avevo alla stessa età. L’insicurezza mi dominava e capivo che alcune cose che mi dicevano mi facevano proprio male, magari toccavano i nervi sensibili; allora ci riflettevo, ci tornavo su, mettevo in crisi il percorso intrapreso. Col tempo capisci che in quei momenti sei cresciuto di più. Il problema, semmai, è quando questi talenti devono poi scendere nella realtà, se siano pronti per affrontare un lavoro così duro, seguirne le tappe e fare i sacrifici o si perderanno del tutto. Nella maggior parte dei casi capisci che si sono persi, non hanno deciso, non hanno il carattere, il bisogno, la tenacia di continuare.

> LoSpazioBianco" />> LoSpazioBianco" />> LoSpazioBianco" height="333" width="238" alt="I taccuini di Lorenzo Mattotti, viaggiatore per immagini (di Ivan Canu) >> LoSpazioBianco" class="alignright size-full wp-image-44372" />Quando Lorenzo è sceso dall’aereo, aveva rotto gli occhiali. Ha detto: come faccio a vedere i loro lavori? È come se fossero immersi nella nebbia. A pranzo, chiacchierando di quel che avremmo fatto il giorno dopo al workshop, quell’idea nebulosa ha suggerito un programma di lavoro. Abbiamo dato a tutti i partecipanti un taccuino su cui affrontare questo viaggio fuori da sé e dalla confusione delle suggestioni, per tracciare le linee di una nuova esplorazione. Un’isola che affiorasse dalla nebbia.

Ce l’avevo in tasca questo piccolo romanzo di Golding, Il Signore delle mosche. Un libro concentrato, forte che dovrei presto illustrare su richiesta di un editore; non lo leggevo da tanti anni ed è stato spontaneo pensare che i ragazzi del MiMaster potessero fare un percorso che sarebbe servito anche a me. È un testo potente, interessante perché si svolge tutto in uno spazio chiuso, l’isola simbolica, l’illustratore può metterci la propria dentro, entrarci. Mi interessa sempre la fase di preparazione, con cosa partire, chi l’ha illustrato prima di me, cosa ho bisogno di sapere, come si fanno gli alberi, il mare, la roccia, i bambini. Materiali da raccogliere, ordinare, metterti nella testa e affrontare. È la base del metodo, di come si affronta un lavoro complesso come un libro. Rileggendo Il Signore delle mosche ho capito che mi aveva influenzato molto per Fuochi e che lo avevo letto prima di realizzare quel lavoro. C’era l’isola, la tensione, la natura selvaggia e l’incubo; anche la maniera di scrivere, certe frasi le ho messe dentro inconsciamente e son venute fuori immagini già nella testa, cosa che non mi è del tutto consueta. Anche qui come in Hänsel e Gretel c’è molto nero dentro, ma pure molto colore, luci meravigliose, questi ragazzi che si fondono nella natura, questa testa di porco che si decompone, il fuoco, il male. Spesso quando faccio libri nuovi, vorrei distruggere tutto quello che so fare e ho fatto prima, vorrei trovare nuove strade. Con Fuochi ho affrontato per la prima volta la natura, ho appreso come disegnarla; adesso son passati anni e ho un diverso approccio. L’interesse di questo lavoro è che riesca assolutamente a impossessarmene. Non sono molto freddo nel progetto, non dico: prendo e faccio tutto. Non penso ad esempio di farlo come Il padiglione sulle dune, il primo Stevenson che ho illustrato. Lì ci sono personaggi persi nel paesaggio, mai un grande ritratto. Non ho uno spirito freddo, descrittivo, forse non mi interessa neanche illustrare questi ragazzini. Lo sento come un romanzo di emozioni, mi lavora dentro.

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Racconti analitici di Freud

Il lavorare dentro, appunto. È in libreria Racconti analitici di Freud, per la serie dei Millenni Einaudi, in cui era stato già edito il Pinocchio arricchito dei bozzetti e degli schizzi preparatori. L’interiorità che lavora e divora, l’angoscia di non voler essere quello per cui altri ci destinano, come nel caso del tragico protagonista di Stigmate, con Freud sembra trovare un suggestivo inizio e pure un approdo fatalistico dei disegni perturbanti e surreali della linea fragile.

Ho accettato con grande entusiasmo, forse due anni fa ormai. L’assurdo di Freud è che ha talmente tante maniere di interpretare e reinterpretare una stessa visione analizzata e poi rivoltarla e cambiarla, che diventa un vero labirinto. Io volevo fare un lavoro complesso su quel che Freud aveva da dirmi e così dare al libro un aspetto più classico, meno gettato e laboratoriale dei taccuini. Questo mi ha frustrato e mi ha fatto rimandare. Isolavo un soggetto, poi un altro, sottolineavo frasi. Ma non trovavo un picco ed è stato da un lato Pinocchio e dall’altro The Raven fatto con Lou Reed, quasi libri-laboratorio, a suggerire tonalità meno drammatiche, partendo dalla mia esperienza di illustratore dell’infanzia e su quegli schemi innestando bizzarrie e inquietudini sui soggetti freudiani. Dopo aver rimandato di mese in mese ho cominciato a rompere i blocchi, ho fatto la prima immagine e ho trovato la strada. Ora son contento perché mi sono liberato dell’enormità di illustrare Freud, creando pure due immagini inventate che non fanno parte dei casi, coerenti con le altre e anche col libro; casomai il lettore andasse a cercarle, vediamo se saprà trovarle. Però questa è la prova che c’è sempre un momento in cui ti viene naturale fare un’immagine che non parta dal testo ma lì debba stare, è naturale che venga fuori. Anche nel libro su Venezia ci sono una decina di scorci che non esistono ma sono possibili al punto da far dire: qui ci sono stato, è un angolo che riconosco e invece l’ho inventato ed è quello il momento in cui mi sono appropriato del soggetto, dei segni, del contenuto, dell’atmosfera di Venezia. Così è successo con Freud..

Mostrando le sue tavole, i ritratti per Domus o il manifesto per il festival di Cannes, Lorenzo mostra anche i pastelli usuali e usati, racconta con passione della loro matericità e degli imprevedibili effetti dell’unione di colori diversi, qualità di paste e gli effetti che diverse punte e materiali hanno nell’unirsi. Massaggiandosi i polsi dice che per lui è un lavoro fisicamente stancante, che usura anche il corpo a donarcisi completamente. A lato ha un iPad, ci scambiamo opinioni su cosa serva e come serva un artista degli spessori e della materia.

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Chimera

Con l’arrivo dell’iPad è arrivata anche una dimensione tattile, il disegno con le dita sullo schermo e non con la mediazione della tavoletta e questo rapporto più diretto mi piace. Vedendo i disegni che Hockney ha realizzato per il New Yorker con iPad, in mostra a Parigi, mi ha affascinato il  programma Brushes, in cui tu disegni e lui ti restituisce tutte le fasi del lavoro, dal primo segno al lavoro finale, un iter di creazione che nel lavoro tradizionale si perde, può solo essere raccontato o resta se qualcuno ti filma. Un’idea che ho sempre avuto anche nell’animazione, fissare la linea del disegno in metamorfosi, il fondersi che è parte del mio modo di disegnare da Chimera a Stigmate. Il canale Tv France 3 mi ha chiesto di fare un’animazione all’interno del film C’era una volta, forse no, in cui un padre racconta la storia della sua famiglia, in maniera quasi fiabesca. Produttori e regista lo vedevano con il mio stile, ma animato. I problemi erano il tempo e il budget, ovviamente. Subito ho pensato a Brushes, lavorando non con una vera animazione ma con un disegno che si crea e si modifica mentre il padre racconta. Con degli iPad ho disegnato d’istinto per due ore, come nelle mie linee fragili, partendo da un volto che si trasforma, diventa un mostro, diventa nero, mettendoci i bianchi, trasformandolo in una casa, in una nuvola, cancellando e disegnando. E il tutto registrato. Dodici minuti di animazione quasi ipnotica che sono poi diventati i cinque nel film, in cui graficamente si è fissata la creatività in ogni istante, portandola a una vertigine. Non è più solo utilizzare mezzi nuovi per cose che puoi fare benissimo in tradizionale, ma usarli per creare nuovi linguaggi. In questo film usiamo stili diversi: disegno per bambini, stile “mattottiano” o molto cartoon sovrapposti, che giocano; mi affascina e c’è la mia impronta nel modo in cui li concateno, decido che da una donna che cammina crescono montagne, poi questa donna scompare in una città qui arrivano dei ventagli… Mi emoziona questo mezzo perché nei suoi limiti è leggero e ci obbliga alla leggerezza, si tende all’idea semplice, spontanea, diretta che invece di finire in un canale digitale va a milioni di spettatori in prima serata.

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Jekyll & Hyde su iPad

Con un’altra intenzione ma pure affine è nato il progetto per il Jeckyll & Hyde, in cui Einaudi ha voluto sperimentare la via dell’iBook e dell’app da scaricare su iTunes.

Abbiamo pensato fosse il progetto ideale, utilizzando la storia a fumetti fatta a suo tempo, aggiungendo una lunga intervista sul lavoro, che grazie alla tecnologia si smonta e rimonta nel corso delle tavole, così che il lettore può seguire la lettura tradizionale del fumetto, ma pure toccare la vignetta e scegliere di vederla com’è stata disegnata in origine, quali cambiamenti ha avuto dalle matite al colore, i riferimenti pittorici utilizzati; Kramsky ha aggiunto uno spettacolo realizzato con voci di attori, musica, suoni, immagini elaborate, come se si desse al lettore una nuova chiave di lettura del fumetto. C’è poi la possibilità di leggere il testo di Stevenson a parte. Un’idea ricca, che sfrutta le possibilità che il libro non ha per sua natura fisica e lo espande, senza togliere al fumetto cartaceo la sua necessità e specificità.

Ogni artista ha un progetto di cui sente l’urgenza, che soccombe alla necessità del lavoro ma sta lì ed è a volte un’ossessione, lo si vive con senso di colpa e con la continua promessa di tornarvi su. Mattotti ne ha decine, compreso un fumetto ormai disegnato per metà su storia dell’amico Jerry Kramsky e che lui promette con un largo sorriso di finire entro l’anno. O forse più tardi, si sa mai.

Lo abbiamo pensato forse dieci anni fa, con l’intenzione che fosse uno di quei progetti semplici, immediati, da fare in pochi mesi. Nasce dal mondo di linea fragile, una storia fantastica che potrebbe intitolarsi Nel paese di Ghirlanda. Ci lavoro d’estate, nel ritiro toscano, fra i cipressi da piantare nel viale e gli amici che vengono a trovarci. Quando un lavoro parte da te, vorresti fare solo quello ma poi tocca abbandonarlo per l’urgenza di altri più contingenti oppure perché arrivano progetti affascinanti e allora dici: be’ tanto quello sta lì. E cominci a lasciarli indietro. C’è sempre questo rapporto con i progetti nuovi che diventano vecchi, che vuoi finire per te stesso e quelli che ti arrivano davanti e che affronti per altre ragioni o perché semplicemente sei un disegnatore, ti metti davanti a un taccuino e lavori. Vorrei anche fare tabula rasa, andare in studio e avere il foglio bianco e dire: cosa sono io oggi. E lasciarlo uscire. Quando succede, questo è uno dei grandi sogni che si avvera.

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Illustrazione per The New Yorker

Ivan Canu è illustratore e scrittore, direttore del MiMaster di Illustrazione a Milano. mimasterillustrazione.com

Tratto da RSera  del 30 dicembre 2011 de La Repubblica, per gentile concessione.

Riferimenti:
Il blog di Lorenzo Mattotti: lorenzomattotti.blogspot.com


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