I ♥ Telefilm: AHS. Freak Show, Galavant, A to Z, Manhattan Love Story
Creato il 29 gennaio 2015 da Mik_94
American Horror Story
Stagione IV
AHS è sì una serie antologica, ma anche una matassa inestricabile. Impossibile parlarne in generale, come si fa quando i finali di stagione ci lasciano con un serial in meno da seguire, in settimana, e un commento da mettere a punto. Perché è lungo, disordinatissimo, strabordante: o lo ami, o lo odi. Senza mezze misure. Lo conosci da quattro inverni, lo critichi e lo santifichi, lo insulti quando spesso ti delude e lo incensi quando ti ricorda la sua eccezionale presunzione. Quest'anno, non mi sono chiesto se mi stesse piacendo oppure no, fino all'episodio tredici. Quando il sipario si è calato e, con il pacchetto completo in mano, mi sono accorto che con Freak Show è tutto un prendere o un lasciare. Mai come quest'anno Murphy si sarà meritato fischi, con una trama ingarbugliata ed eccentrica; con un pagliaccio assassino che durava poco e non faceva mica paura come It; con la scelta di trattare a pesci in faccia un'attrice premio Oscar, Kathy Bates. Al solito, parte con vigore e maestria. Un pilot surreale, colorato, assurdo, in cui ci viene presentata una famiglia di mostri erranti, dove si organizzano prazi, orge e massacri. Lì, nella prima ora, la scena cult. La colonna sonora post-moderna permette alla regina del circo di cantare David Bowie, la volta successiva Lana Del Rey. Ma ci si fa il callo e la stranezza finisce per diventare normalità: quei mostri non sono poi così folli, né così rivoltani; anzi, ti appassioni – come fosse una soap – alla storia della stella tramontata che sogna il cinema, del ragazzo con le mani d'aragosta che non può toccare la sua sensitiva imbrogliona, delle gemelle siamesi che desiderano l'indipendenza, del perfetto damerino che ha una casa di bambole e la sete di sangue. Troppe trame, troppi personaggi, troppo. Molti restano estranei, perciò; liquidati solo come Murphy è tanto pessimo e brutale nel fare. La sceneggiatura ha un occhio di riguardo per il fedele Evan Peters, anche intonato alle prese con i Nirvana; per Sarah Paulson, sdoppiata ma non per questo doppiamente più brava; per la new entry Finn Wittrock, ragazzo belloccio e versatile, con mamma svampita e occhi blu da fotomodello assassino. Infine, c'è Jessica Lange. Impeccabile, magnetica, credibile, è la dea indiscussa di uno show che, senza di lei, il prossimo anno, non sarà lo stesso. Sarà meglio? Sarà peggio? Si mette in gioco con il canto e i primi piani. Non si arrende al tempo e, sessantacinquenne dal fascino d'acciaio, ricopre un ruolo pensato per una donna più giovane, e lo fa a testa alta. La sua Elsa Mars – madre dello show, senso del tutto – la si identifica con lei, nonostante il curatissimo accento tedesco, qualche parolina in italiano, un passato di sevizie. Il difetto di questo nuovo orrore è che, nonostante la violenza palesata, non impressiona. La cosa più agghiacciante rimane la sigla. Ci accontentiamo, se ci va, di qualche personaggio memorabile e di qualcuno piacevole ma che abbiamo già scordato; di una sfarzosa messa in scena; di una storyline ricchissima che poteva fare disastri e invece, grossomodo, no; di una regia incisiva ma lontana dai manierismi del passato. L'episodio più bello: il decimo. La fragile Pepper commuove e il richiamo ad Asylum esalta. Il cameo più brutto: Wes Bentley. Quello più significativo: Neil Patrick Harris, raramente così talentuoso e, dopo Gone Girl, mostrandosi in un'irripetibile scena di sesso a tre, fan ufficiale del “famolo strano”. E che vi devo dì? A me Freak Show, pur con tutte le sue sottotrame superflue, i grandi attori trattati malissimo, gli eccessi e il kitsch, le insensatezze da telenovela argentina, è piaciuto lo stesso abbastanza. Distante dal per me splendido Asylum, ma anche dal pessimo Coven: un'onesta via di mezzo. Con troppe sbavature, molto Bowie e tanta Jessica Lange. (7)
Galavant
Stagione I
Brillante.
Aggettivo che calza a pennello. Non posso definire in altro modo una delle novità più gustose e divertenti che, per
iniziare al meglio il nuovo anno, l'ingessata ABC ci ha proposto,
apparentemente sulla riga di quell'Once Upon a Time che avrà sì tanto successo, ma che per me, dalla seconda stagione in poi, è cosa inguardabile. Insomma: coloro che me lo paragonavano a quel
telefilm di inciuci e fiabe non attiravano propriamente la mia
attenzione, anzi. Mi facevano paura. La storia, inoltre, un incrocio
curioso tra Reign e Glee, mi sembrava troppo stupida per essere vera.
Ma l'ho trovato
sorprendentemente piacevole, sapete? Perciò dico che è brillante.
Il mandare in onda due episodi per volta di venti minuti ciascuno, in
modo da soddisfare più di una normale sit-com e di occupare meno
spazio di una produzione lunga un'ora. Il sapersi fermare dopo otto
episodi appena, il fare durare la serie meno di un mese, il capire
dov'è il troppo – troppo cantato, troppo infantile, troppo assurdo
– e fermarsi prima del limite. Forse voi non ve lo
ricordate un film che si chiamava Ella Enchanted, con una
giovanissima e sconosciuta Anne Hathaway che si muoveva in una fiaba
piena di ironia, tra fate, giganti e canzoni dei Queen. Oppure Il
destino di un cavaliere, più serio e sicuramente più degno di nota,
che aveva un biondo Heath Ledger nel fiore degli anni e sempre i
Queen, da cantare e suonare mentre i villici seduti sugli spalti, con
applausi e pugni, seguivano duelli tra cavalieri e scandivano il
ritmo irresistibile della We will rock you che ti fa sempre battere i
piedi a tempo. Sicuramente vi ricordate Shrek, il romantico e sporco
orco delle paludi. O Rapunzel, la fiaba in musica che, prima dell'avvento di Frozen, aveva divertito anche i nemici giurati
del film d'animazione. Bene: prendete lì l'ironia, qui
l'orecchiabilità, lì gli eroi improbabili e qui i regni da salvare,
e otterrete un simpatico equilibrio che va sotto il nome di
Galavant. Una serie musical di cappa e spada che, lampo di genio,
penso piacerà un po' a tutti. A chi i siparietti
musicali li adora, a chi i siparietti musicali li detesta. Si canta
al posto di parlare, ogni tanto, e perfino le battute sono in rima:
pronunciate in falsetto e con un'intonazione perfetta. L'umorismo è
quello di un Mel Brooks, alla lontana; le vicende, con i servi
svegli, le principesse traditrici, i re fanfaroni, sembrano puntare
l'occhio verso l'antica tradizione della commedia latina che era un po' l'antecedente
del musical moderno, no? O forse questa è una mia impressione,
perché sto studiando troppo e ormai vedo Plauto e Terenzio anche in
tivù. L'eroe eponimo è interpretato dal londinese doc Joshua Sasse:
un "baldo giovine", carismatico e sicuro di piacere a tutte le dame che
vorranno dargli un'occhiata o due, ma non troppo spavaldo da non
riuscire a ridere sinceramente di se stesso. Lo
accompagnano quell'arpia di Mallory Jansen, fanciulla un tempo casta
e pura che ha voltato le spalle al nostro eroe per via del
potere dei soldi; l'esotica Katen David, dalla bellezza tipicamente
indiana e dai segreti sporchi; un mitico Timothy
Omundson, nelle vesti di un villain frufrù, cattivo ma non troppo,
che ha il cuore di burro e la lacrima facile; un imponente Vinnie
Jones che, per la prima volta, presta i suoi muscoli e la sua stazza
da sportivo al demenziale. Le coreografie sono semplici;
le canzoni – con coretti di sottofondo – assicurano risate. Non dico che acquisterò un cd o qualcosa
di simile, ma qualche esibizione potrei rivederla su Youtube. Ecco! Si ride con poco, come da bambini, parlando di flatulenze e gente
che russa, di codardia e capitomboli, e non si vuole essere
originali, ma neppure volgari. Galavant è un intrattenimento da
bollino verde, che ha gli assi nella manica per rendere decisamente
allegri anche i bimbi più cresciuti. Mio padre, cinquant'anni ad agosto, ma non ricordateglielo, è già un fan. (7)
A to Z
Stagione I
Sembrava
promettente. E non dico sulla carta, ma limitandoci giusto al pilot. Una
voce narrante che mi aveva fatto venire in mente Pushing Daisies. Una coppia coi
giorni contati, come in 500 giorni insieme, di cui la sigla già
annunciava la rottura. Il rapporto tra Andrew e Zelda sarebbe stato
spiegato nel dettaglio.
Cosa sarebbe stato di loro alla fine dell'alfabeto? Si è arrivati alla lettera “m”, a
tredici episodi e stop. Cancellato. Ma vi dirò, sembrava promettente
giusto in principio. Nemmeno uno come me, che alle cose dopo poco si
affeziona di già, piangerà la sua cancellazione. Tanto, tranquilli,
finisce bene: non arriva dove pattutito, ma ha un epilogo che
soddisferà coloro che l'hanno seguito. Tanto, era
inutile. I protagonisti, amalgamati ma male assortiti, si innamorano
senza che tu ti innamori di loro. Né a prima vista, né dopo episodi
ed episodi. Cristin Milioti, vista in The Wolf of Wall Street e in
Alla fine arriva mamma, ha un personaggio irritante e quel sorriso
alquanto creepy che rovina lineamenti di un volto discreto; meglio
Ben Feldman, che ha una lunga relazione aperta col piccolo schermo,
da Drop Dead Diva a Mad Men, un non so che fa simpatia, ma un ruolo
da mammoletta e non da romanticone. Il che è diverso! Come in ogni
sit-com che si rispetti, anche gli amici di lui e gli amici di lei,
gli ex e le ex, i parenti imbarazzanti: furbastro il tentativo di
fare del cicciottello Henry Zebrowksi un nuovo Zach Galifianakis –
anche se hanno in comune un cognome arduo da scrivere. Ogni tanto piacevole, ogni
tanto noiosetto, ma sempre superfluo; sempre senza vita propria. L'ho
seguito perché non mi rubava tempo e perché, dopo la pausa
natalizia, una parziale ripresa c'è stata. Abbastanza da non farmi
pentire di averlo salvato dal cestino del mio computer, ma non
abbastanza da risultare così indispensabile da recuperarlo. Altra
stupida commedia americana, con sorrisi rarissimi e un ritmo buono,
divisa in scomode rate mensili. (5)
Manhattan Love Story
Stagione I
Detto
tra me e voi, pensavo di averci messo una croce sopra. Con il quarto
episodio, annunciato come ultimo, pensavo di avere già detto addio a
Manhattan Love Story e me ne ero fatto una ragione, nostante –
per quel poco che avevo visto – era davvero uno spunto brillante
per una rom com solita e insolita allo stesso tempo. Squilli di
trombe, rullo di tamburi. Da un giorno all'altro, mi ritrovo davanti
il quinto episodio, poi il sesto, poi il settimo... fino
all'undicesimo. Rinnegato dalla ABC, era andato in onda online, in modo che
avesse un finale tutto suo. E non come quel Selfie che mi divertiva,
ma mi ha fatto pure incazzare, perché, su, quale commedia romantica
non sai già come finisce?! Ecco, Selfie. Troncato bruscamente, finito
in sospeso. Per chi lo segue o vorrà seguirlo, quindi, una
rassicurazione: Manhattan Love Story dura poco, comunque meno del
previsto, ma finisce nel migliore dei modi. Come mi diceva la mia
amica Sonia in chat, c'è ancora qualche sceneggiatore televisivo
che, messo alle strette, senza farsi troppo l'originale, mette a
dovere un bel punto fermo alla fine di una bella storia. Vi dico che
i protagonisti, belli e biondissimi come fossero la progenie segreta
di Hitler, sono simpatici e in gamba. Lui, forse unica cosa degna
accanto a un Cooper spento nell'ultimo film di Eastwood, è una sorpresa. Lei, piena di
potenziale, non vedo l'ora
di vederla accanto a Miles Teller in una commedia romantica che in
America è giù uscita, ma che da noi beccheremo giusto coi sottotitoli. Per il resto? Mi copio-incollo. E
dico quello che avevo detto, confermando una sufficienza piena:
“ambientato nella città più bella del mondo, ha venti minuti che
volano e le voci incensurate di due innamorati alle prese con le
prime fasi del loro rapporto. Nella sua semplicità, funziona. La leggerezza concentrata in
streaming”. (6,5)
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