I ♥ Telefilm: From Dusk Till Dawn, Hannibal, Rosemary's Baby, About a Boy
Creato il 27 maggio 2014 da Mik_94
Come
direbbe la mia amica Lisa, del blog In Central Perk (qui), “Quando
i film si fanno ad episodi”. E' il caso di dirlo, questa mattina. I
love telefilm ritorna per parlarvi di qualche recente finale di
stagione. Tutte le serie che seguo stanno finendo, ahimé, e non ho
più scuse per rimandare lo studio. I palinsesti americani saranno in
combutta con prof e genitori di tutto il mondo? Le quattro serie di
cui vi parlo oggi non sono serie qualsiasi: avrete notato. Conoscete
tutti i titoli. Sono vecchi film passati al lato oscuro: la
televisione. E ad alcuni è andata addirittura meglio, altro che lato
oscuro e lato oscuro. Dal tramonto all'alba, da raccontino
stringato, diventa un lungo romanzo pulp; Hannibal – slegato
dalla prosa insipida di Harris – diventa arte moderna; About a
boy fa piacevolmente compagnia, più di quanto potesse fare il
film, con i suoi novanta minuti. Ultimo, un titolo che ho
inserito imbrogliando un po': Rosemary's baby. Ha solo due
episodi, ma bastano, grazie. I commenti non dovrebbero contenere
spoiler: altrimenti, sentitevi liberi di insultarmi. Allora, quale
tra queste serie avete seguito? Quale seguirete? In Italia sono
praticamente tutte inedite. Ditemi. Un saluto, M.
From Dusk Till Dawn
Stagione I
Un'operazione cameratesca,
godereccia, celebrativa. Funzionale, e in parte riuscita. Trash.
Pulp. Iconico. Latino. Assetato. Verboso, splatter, pienissimo. Il
film di Rodriguez era un racconto dell'orrore. Questo è un
romanzo. I dieci
episodi complessivi spiegano quello che il film non spiegava e
intrattengono con una mitologia d'ascendenza Maya esotica e
fascinosa. Il telefilm riprende dalla pellicola originale l'inizio,
la parte centrale, ma imbocca una strada nuova, puntando al finale di
stagione. Un finale tutt'altro che conclusivo, ma noiosetto.
Fortunatamente, non rovina i diversi pregi del resto. Peccato che
deluda lì dove vorrebbe sorprendere. La prima
parte è un'avventura on the road. I punti da spuntare, su una lunga
lista di vittime e mete, sono i classici: superare la dogana;
oltrepassare la frontiera; sopportare gli impeccabili sproloqui di
due fratelli rapinatori un po' matti che uccidono, prendono ostaggi,
rubano e seminano mine vaganti. La seconda parte, la più attesa, è
l'arrivo in Messico. Il deserto, i cactus spinosi, i teschi, le
insegne luminose del Titty Twister. La costruzione del setting è perfetta. Tutto è
uguale a com'era diciotto anni fa. Ma Salma Hayek, la regina dei
serpenti, ve la ricordate? Come dimenticarla. Il suo spogliarello con
il pitone avvinghiato al collo è storia. Piccola, giovanissima, con un corpo che era tutto una curva. Quentin Tarantino che le
baciava il piede, che beveva l'alcol che gocciolava lungo il pendio
della sua gamba. Ricordate?! C'è tutto. Lo striptease – e la
successiva mattanza - rivive in uno degli episodi più stimolanti,
nostalgici e riusciti di questa stagione. Eliza Gonzelez non è la Hayek, ma che vuol dire? Formosa,
alta e sottile, ipnotica, mai volgare. Una regina delle tenebre
nuova, sensuale, con un'antica storia di immortalità alle spalle. Buono il cast, che recita in una
storia semplice, ma assai rischiosa: sono i paragoni a essere
rischiosi. Lì c'era George Clooney, qui D.J Cotrona: aspetto simile,
stessi dondolii con la testa, faccia da schiaffi. E poi è meno antipatico di Clooney! Lì c'era un folle, malato e
perfetto Tarantino, qui c'è il giovanissimo Zane Holt. Ha per le mani il ruolo più delicato e risulta un po'
troppo belloccio per il Richie che conosciamo, ma non è male. I
nuovi fratelli Gecko sono in parte, affiatati, simpatici e odiosi,
prolissi e spericolati. Stanno bene in abito scuro e con
l'artiglieria pesante tra le mani. Il ruolo dell'esordiente Juliette
Lewis è di Madison Davenport, candida e maliziosa; il pastore che fu
il magistrale Harvey Keitel è Robert Patrick: fisico da duro, voce
da fumatore incallito, colletto da abito talare a nascondere i
tatuaggi e i muscoli di gioventù. Il film, del lontano 1996 –
sigh! - , era un concentrato di divertimento. Ampliandolo e dilatando
i tempi, si è corso il rischio – più e più volte – di perdere
un po' l'allegria cazzona da festa cannibale, in cui imbucarsi il
sabato sera. Eccola, la grossa pecca. (7)
Hannibal
Stagione II
Un capolavoro del
piccolo schermo. Trovatemi una serie targata NBC diretta con
altrettanto gusto, scritta con altrettanta perizia, recitata con
altrettanta passione. C'è l'omicidio come forma d'arte. La morte
come forma di poesia eternatrice. I cadaveri sono sculture di carne.
Totem. Hannibal e Will diventano Achille e Patroclo. Maestro e
allievo. Compagni. Amanti mancati. Dialogano da un lato e l'altro del
tavolo. Si sfidano. Si superano. Sembrano corteggiarsi. I loro
discorsi vibrano di cose: filosofia, politica, medicina, scienza e
fede, paternità. Il serial è una nuova strada, tra il disgusto puro
e la pura bellezza. L'estetica del sublime che si fa concreta.
Un'opera impressionante, che schizza le tele di Pollock di sangue,
ricerca lo splendore, coltiva e semina piacere. Alta cucina, alta
classe. Un Mads Mikkelsen monolitico, superbo, calmissimo. Il volto
tirato, le espressioni ridotte all'osso, le mani sempre in movimento,
la pochette abbinata puntualmente al cravattino. Un predatore
silenzioso e letale. Grande oratore, re di sirene dai denti a
sciabola e dalle pinne come scaglie di lamiere. Ti guarda e ti
attacca. Ti guarda e sei tu ad attaccare te stesso. Ti mangia. O sei
tu a mangiarti? Hugh Dancy, invece, recita con tutta la faccia. Viso
pulito, occhi limpidi, pieghe del volto che si fanno più rare, fino
a scomparire. I suoi pensieri parlano con la voce di Hannibal e il
suo volto, allo specchio, diventa simile a quello di Hannibal:
impassibile, congelato, indecifrabile. Sintomo di un cuore nero. E
c'è Gillian Anderson: più bella con gli anni che passano. Le gambe
accavallate, i vestiti su misura, i capelli biondi che stanno
immobili come fossero di cemento armato, la voce bassa e sensuale.
Una vedova nera, una femme fatale anni '30. Sconvolgente Michael
Pitt: il Mason Verger incestuoso, sadico, che beve lacrime, alleva
maiali e si mutila la faccia senza batter ciglio. Pezzo dopo pezzo. La seconda stagione di Hannibal è
migliore della prima. Di parecchio. Guardate l'incipit del primo
episodio: è sensazionale. Ha la fattezza dei noir europei. Languidi, lenti,
da esplorare, da scoprire. Da sopportare, all'inizio; da supportare,
per tutto il tempo rimanente. Si scopre più snello, Hannibal,
ma non si svende. Pastoso, barocco, eccedente, ricercato, ma con un
finale di stagione senza grazia. Un bagno di sangue, anche se
Hannibal – ehi! - è
la yakuzi dei bagni di sangue. Un sacrificio mortale. Come quando i
samurai, senza proferire parola, si gettano per onore e orgoglio
sulla loro spada sguainata. Non mi arrabbiavo così da tempo, direi.
Voglio la terza serie adesso. Ora. Subito. Purché faccia sfoggio del
medesimo taglio cinematografico; purché ottimi registi come Vincenzo
Natali (The Tube, Splice)
e David Slade (Hard Candy, 30 Giorni di buio)
scendano in campo – con la macchina da presa alla mano – ad
incantarci con un uso superbo di rallenty, split screen, volteggi da coreografi di danza classica. E di Black Swan. (8,5)
Rosemary's Baby (miniserie TV)
Non
ho letto il romanzo di Ira Levin. Non ho visto il film di Roman Polanski. Parlo della miniserie
Rosemary's Baby senza pregiudizi e senza far
paragoni. Con estrema e assoluta sincerità. Doveva essere una specie
di evento. Doveva esserlo: per forza. Non è mica una cosa che
si fa tutti i giorni, riproporre un film che ha quarantasei anni di
storia, che è considerato capolavoro, che è chiacchierato in ogni
libro di Storia del Cinema. Invece, pur guardabile e
godibile, il piccolo remake dalla polacca Agnieszka Holland –
candidata svariate volte agli Oscar, in veste di sceneggiatrice –
non ha nulla che lo faccia davvero brillare. Impersonale: è un
compitino portato a termine di malavoglia, mirato per raggiungere una stentata sufficienza. Il formato, televisivissimo, non
aiuta di certo a creare una grande atmosfera, però un minimo fascino
ce l'ha. Anche senza i brividi e i colpi di scena.
Le numerose scene gore sono ben fatte (degno di nota un raro caso di
autopsia cosciente), stessa cosa per la famosa sequenza del
concepimento. Il cast non è dei più
indegni, ma non c'è un solo attore che spicchi. Il ruolo che fu
della Farrow è di Zoe Saldana – che per una volta non è blu (vedi
Avatar) o verde (vedi Guardians of The Galaxy). Piange tanto e bene, piange a
comando, ma dà al personaggio della protagonista un'aria trasognata
che irrita. Rosemary nel paese delle meraviglie. Jason Isaacs
è il solito cattivone infame, la francese Carole Bouquet ha un
innegabile charme. Stupendo il bambino, che sarà anche figlio di
Satana, ma ha degli occhi blu impressionanti. Lo adotto, dai: anche
se, a diciott'anni, gli spuntano le corna sulla fronte! Questa fiction mi ha ricordato troppo 666 Park Avenue.
Identico, giusto un tantino più dark. E il network che produce quella perna nera di Hannibal poteva avvicinarsi ad altro.
Puntare più in alto. Sull'ambientazione: il Nastro rosso a New
York si trasferisce dai nostri cuginetti d'oltralpe. Parigi e i
soliti luoghi comuni. Famme fatale senza età con tendenze lesbo,
europei che baciano completi sconosciuti sulle guance, francesi che non danno indicazioni, lezioni di cucina, gatti neri, arte.
Recitazione standard, storia risaputa. Sicuramente, in quarant'anni e oltre di vita, c'è la
certezza che Rosemary's Baby abbia dato da mangiare a tanti
registi di horror(etti) sparsi – c'è L'avvocato del diavolo,
il tema del recentissimo Devil's Due, le ossessioni materne di
The Calling. La storia della protagonista e della sua macabra
gravidanza è stata proposta sotto altri nomi, in altre vesti: in remake non autorizzati. Non
serviva riproporla ancora. Perché diretta in maniera così
monocorde, una vicenda così usata e abusata non rende mica. (5)
About a Boy
Stagione I
Nick
Hornby è un signore di cui non ho ancora letto niente. Ma lo conosco
bene. E voi, lo conoscete? Ma sì. Avrà ispirato qualcosa come una
dozzina di film sparsi. Il più recente, Non buttiamoci giù:
non ve ne ho parlato, ma spendo due parole adesso. E' carinissimo.
Esattamente come te lo immagini, ma pieno di umorismo
british: fa bene al cuore, alla fine. Parallelamente, il nome del
caro Nick rimbalzava tra i cinema internazionali e palinsesti USA.
About a boy – l'impeccabile commedia sullo sciupafemmine che
si improvvisava mentore e papà – si è fatto sit-com, questa
primavera. Io alle sit-com non riesco ad affezzionarmici proprio. Mi
stanco, le vedo a tempo perso, le mollo. About a boy,
nonostante coi suoi venti minuti scarsi si faccia vedere sempre
a tempo perso, fa compagnia. E' un bell'intrattenimento per famiglie.
E, nel cast, ha una bella famigliola improvvisata: il volubile Will,
la trasandata Fiona, il piccolo Marcus. Vicini di casa, separati da
una siepe e da pareti di cartone. I due adulti non si piacciono: lui
mangia costolette unte come se non ci fosse un domani, lei è vegana.
Lui strimpella strumenti con la sua band di gioventù,
lei medita in silenzio. Lui è americano, lei è inglese. Ad unirli,
un bimbetto che ama i berretti di lana, sua madre, le imbarazzanti
canzoni degli One Direction. Il film era un gioiellino di garbo e
comicità, con un cast formidabile: tra i protagonisti, Hugh Grant,
il Nicholas Hoult di Skins, una esilarante e
tragica Toni Collette. Nella versione televisiva tutti sono più
teneri e coccolosi, tutti si impegnano di meno, ma – tutto sommato
– risulta abbastanza. David Walton è simpatico, Minnie Driver è
adorabile e conserva un accento magnifico, Benjamin Stockham – coi
suoi tredici anni – è un mattatore del piccolo schermo ancora
imberbe. Ha faccia tosta, un sorriso vispo, allegria. Mi sono
affezionato anche a loro, mi sa. (6)