I ♥ Telefilm: Hemlock Grove, Underemployed - Generazione in saldo
Creato il 26 luglio 2013 da Mik_94
Hemlock
Grove:
una serie TV spuntata sul web da un giorno all'altro e subita
discussissima, seguitissima e amatissima. Il trailer –
rigorosamente vietato ai minori – proponeva sangue a litri,
violenze inguardabili, scene di sesso esplicite e trasgressive, una
fantasia malata e inquietante. Soprattutto, sbandierava a grandi
lettere il nome del produttore esecutivo della serie, nonché regista
di diversi dei 13 episodi che la compongono: l'Eli Roth di Hostel
e Cabin Fever.
Il
re dello splatter e il creatore di horror talmente eccessivi da
risultare divertenti, svalvolati, ottimi per una serata con popcorn a
palate e amici un po' idioti. Pur essendo un tiepido estimatore di
questo “simpatico” regista, ho subito notato che il suo telefilm
era tutt'altro, fortunatamente. Strano, originale, onirico, ben
scritto e intelligentemente diretto, ammaliante, vagamente vintage.
La trama, se raccontata, potrebbe risultare piatta e banale: un
ragazzo nuovo in una città piena di segreti, una famiglia
onnipresente eppure sfuggente, licei, bulli, amici, omicidi consumati
nel bosco e preceduti da ululati emessi sotto la luna piena.
Effettivamente banale lo è per davvero, e le dinamiche familiari e i
morbosi intrighi ricordano alla lontana quelli di una
soap.
A rendere oscuro e impenetrabile il tutto è una cappa di
paranormale, che prevede cacciatori, licantropi, medium e sortilegi,
maledizioni ed esperimenti di scienziati che giocano ad essere Dio.
La serie è un carosello di stramberie; una di quelle in cui, spesso,
ci sono episodi in cui comprendi poco o niente, ma che comunque ti
ipnotizzano e ti spingono a vedere ancora e ancora. Mi è piaciuto,
ma non so perché. E' uno di quei prodotti che, se spiegati, perdono
tutto il loro fascino. Dà sprazzi di verità, è delirante, eppure
dietro a quel velo di stranezza è molto più semplice di quanto
sembri. Riesce a tenerti, però, curioso e vigile per tutti gli
episodi. Monitorare i comportamenti dei personaggi è un'esigenza.
Sono ambigui, incomprensibili, fuori dagli schemi, bellissimi. Uno
dei protagonisti è Peter, un diverso: un nomade che vive in una
roulotte, che ha barba e capelli lunghissimi e che si attira
automaticamente le occhiatacce dei suoi coetanei al suo passaggio
ciondolante nei corridoi. Le morti sono iniziate all'arrivo della sua
famiglia in città, è uno zingaro e, per tutti, è il colpevole.
Accanto a lui troviamo Roman, che, proprio come Peter, ha il fardello
di una famiglia che è sulla bocca di tutti. Sua madre – una vedova
bellissima e facoltosa – possiede mezza città e, apparentemente,
l'antidoto dell'eterna giovinezza. Interpretata dalla sempre
affascinante Famke Janssen, è la versione in chiave horror di
Victoria Grayson: abiti eleganti, amanti che vanno e vengono, soldi e
cattiveria a palate. A completare il quadro di famiglia, Shelley –
una ragazza dolcissima, ma affetta da gravi e spaventose deformità –
e l'adorabile Letha – che, vergine, ritiene di aspettare il figlio
di un angelo apparsole in sogno. I protagonisti, giovani e quasi
sconosciuti, possiedono un talento sorprendente. Particolarmente
bravo Bill
Skarsgård, che sicuramente apprezzeranno anche le spettatrici:
inquieto, alto e pallido come Edward Cullen, ma con gli occhi grandi
ed inquietantemente espressivi di un cartone di Tim Burton, è il
fratello dell'Alexander Skarsgård di True
Blood. Season finale
macabro, cruento e dannatamente aperto per una
delle più grandi scoperte televisive di questo 2013.
Non
mi capitava dalla prima stagione di Glee,
forse. Vedere un telefilm e desiderare di essere parte del cast.
Sentirmi a casa. Annullarmi completamente in quaranta minuti di
finzione veri come la realtà, ma molto più belli. E poi è
successo, con un telefilm che, ogni giovedì, in prima serata, dal 19
Luglio, va in onda su Mtv: Underemployed
– Generazione in saldo.
Scoperto all'improvviso, inaspettato, divertente, sinceramente bello,
Undermeployed è
un prodotto americano, ma piuttosto atipico per il mercato
statunitense. Quando penso alle serie TV girate negli USA mi vengono
in mente i vestiti griffati di Gossip
Girl, i lussi di
Revenge,
l'ilarità forzata ma contagiosa di sit-com come New
Girl e Cougar Town.
Questa, invece, è una serie immersa anima e corpo nella realtà
talora triste che tutti noi conosciamo: una realtà di sogni
infranti, speranze troppo grandi, precari e lavori saltuari. Sarà
proprio per questo che gli spettatori americani l'hanno accolto
tiepidamente, facendo sì che la prima serie fosse anche l'ultima, e
che io l'ho adorato dalla prima scena. Senza mai essere didascalico o
ovvio, riflette con originalità e con il sorriso sulle labbra sulla
triste situazione attuale e sulla crisi. Crisi a cui nemmeno gli
Stati Uniti di Obama sono immuni, evidentemente.
Ambientato tra le
quattro mura di un appartamento per la maggior parte del tempo,
proprio come una vecchia ed efficace sit-com, Underemployed
risulta essere molto
più ampio, sia per la durata, sia per l'importanza delle tematiche
affrontate. Importante. I protagonisti, per fortuna lontani dal mondo
di bellissimi e famosissimi a cui siamo abituati da diversi anni,
sono cinque ragazzi che, finito il college, si trovano alle prese con
la vita d'adulti. Vita alla quale l'università non li ha preparati.
Sophia, da sempre brillante studentessa con il sogno della scrittura,
si trova a sfornare ciambelline glassate in una sorta di pasticceria
e si scopre innamorata, da un giorno all'altro, di un'altra donna.
Miles, bello e con un cuore d'oro, vorrebbe volare a Milano e vedere
il suo volto – e il suo sedere – nelle pubblicità di Calvin
Klein, ma si deve accontentare di partner occasionali e di un lavoro
come cameriere. Daphne, perdutamente innamorata del suo capo, lavora
come stagista in un'agenzia pubblicitaria. Lou e Raviva –
fidanzatissimi sin dal liceo – ancora immaturi e pieni di paura,
diventano genitori di una tenerissima bambina, bisognosa di cure
costanti e attenzioni... come il loro rapporto tutt'altro che
idillico. In un cast perfetto, ma di attori semisconosciuti al grande
pubblico, spiccano i volti già noti di Diego Boneta e Sarah Habel: i
belli della serie. Lui, nato e cresciuto in Messico, l'avevamo già
visto in Pretty Little
Liars, 90210
e accanto a Tom
Cruise nel musical Rock
of Ages, in cui,
nonostante con i suoi ventitrè anni fosse il più giovane ed
inesperto del cast, aveva stupido con straordinarie doti canore. Lei
– simpatica, spontanea, adorabile – ha recitato in Hostel
3, Whip It, The Butterfly Effect: Revelation. La
vita prende a pugni i loro sogni di gloria, ma l'amicizia che li lega
rimargina ogni livido e ogni difficoltà. Sono una stupenda famiglia,
tutti insieme. Mi ricordano la vecchia squadra di Glee,
i protagonisti cresciuti di Noi
siamo infinito. Mi
fanno compagnia, ridere e commuovere. Dodici episodi da vedere e rivedere.
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