I ♥ Telefilm: Sense8, Orphan Black III, What Lives Inside

Creato il 26 giugno 2015 da Mik_94
Sense8
Stagione I Serie che spuntavano come funghi nel mio periodo di reclusione forzata. E, tra queste, serie che non immaginavo neanche di avere il bisogno di seguire. Nello specifo, questa qui, scritta – e, per qualche episodio, diretta – dai fratelli Wachowski. Amati e odiati creatori del cult Matrix, da poco reduci dal fiasco Jupiter Ascending, qui cento passi avanti e uno indietro. La Netflix a produrre, storie dentro storie e – all'inizio - l'ombra di quel povero Cloud Atlas tanto messo al vaglio per il quale avevo invece straveduto. Sense8, per leggerezza, piglio autoironico, giusta misura, è senz'altro migliore. Non ha momenti morti. Nella sua fantasiosa coralità, non ha una storia che ti piace e un'altra no. Risulta talmente ben pensato che gli otto personaggi – nati nello stesso giorno, connessi, in pericolo mortale – a turno promettono di diventare i tuoi preferiti. Un giorno preferisci Riley, deejay islandese che sta tornando a casa; un altro, invece, Sun, imprenditrice koreana dai colpi segreti, in una prigione di massima sicurezza per colpe non sue; Nomi, che un tempo si chiamava Michael; Lito, star messicana, che nella vita privata vive un comico mènage a tre; Wolfgang, duro e selvaggio, ai ferri corti con mezza Berlino per un furto di diamanti; Kala, bellissima indiana alle prese con un matrimonio combinato; ancora, Capheus – africano – con un pulmino sgangherato che ha il nome di Van Damme e una propensione per i guai. Personaggi in divenire che, sfidando fusi orari, latitudini e paradossi, a volte vengono a trovarsi nella medesima inquadratura grazie a splendide sequenze d'insieme – è il caso di What's Up che passa al karaoke, di un'orgia impossibilein cui all'unisono si raggiunge il piacere, del ricordo della miracolosa notte delle loro nascite. L'intreccio, a volte, può ricordare i prodotti commerciali di una The CW – ad esempio Heroes, che alle medie adoravo: voi avevate l'album di figurine, sì? - ma si sposa a momenti di pura bellezza – e personalità, e passione - indiscutibilmente autoriali. E Sense8è lì che è fantastico, nella normalità di un giorno qualunque; quando non succede granché. Ti prendi il tempo per conoscerli e comprenderli – e non so raccontarvi, adesso, quanto sia intenso il decimo episodio, ad esempio, in cui gli inseguimenti vanno a nanna par lasciare pace ai due diversi, Nomi e Lito, che in un museo vuoto danno vita a un dialogo mentale in cui parlano delle loro relazioni. Lei che prima era un lui, che poi è diventato una lei, che poi si è innamorato di un'altra lei; lui – sempre stato convinto della propria mascolinità, al contrario – che al primo appuntamento, già cotto, faceva un pompino a quello sconosciuto che parlava d'arte in uno squallido bagno pubblico, eppure non c'era squallore alcuno. A Sense8 credi e subito giureresti di credere nel prossimo, vincendo la tua diffidenza da misantropo; contagiato dall'intensità, sconquassato dall'empatia. C'era il video di questa canzone pop, un pezzo per l'estate della Minogue, mi pare, di cui non ricordo ora come ora neanche il ritornello; alla base, comunque, aveva una gran bella idea. Gli amanti di New York si spogliavano e, in mezzo a strade vuote, rimanevano solo in biancheria intima: si baciavano, si mischiavano, formavano una piramide umana. Un corpo solo. Non si sapeva dove iniziassero e finissero le bocche. Di chi fossero le mani, le braccia, la pelle esposta. Gli uomini e le donne - i bianchi, i neri, i gialli e le incredibili sfumature che stanno a metà, frutto di una splendida mescolanza di razze - condividevano il cuore. Si amavano i maschi con i maschi, le femmine con le femmine, in ogni alternativa possibile, e - sarà che erano tutti così belli e di quella bellezza che non fa spavento, sarà che mi piace pensare che anche allora la tolleranza fosse di casa - avevano l'aspetto che immagino abbia l'armonia. L'ordine, sulla terra, era una forma geometrica tutta nuda e senza vergogna. Pensieri – e immagini – che mi sono tornati in mente anni dopo, quando di quella canzone mi è sfuggito di mente il titolo e, dalla tivù della mia stanza, è arrivato e se ne è andato, in un paio di giorni, l'impensato Sense8: per me, attualmente, serie dell'anno.Il minimo comune multiplo di un grande amore (o otto?), e tutto il caos trova un senso. (9)
Orphan Black Stagione III Questo sembra essere l'anno in cui le serie che seguivo o finiscono o, puntualmente, mi deludono. Che posso farci? Due anni fa ho conosciuto una rivelazione di nome Tatiana Maslany – santificatela subito – e ho consigliato la sua serie a parte del mondo conosciuto, probabilmente. Orphan Black era bellissimo, originale, a tratti divertente: andava recuperato per forza. Già la seconda stagione, similissima alla prima e con poca voglia di fare, mi avrebbe lasciato un po' così, appeso all'incertezza più totale, se non fosse stato per quel colpo di scena finale che, come nella migliore tradizione degli ultimi episodi, mi aveva lasciato con la curiosità a mille. Non c'erano solo le “sorelle” del misterioso Progetto Leda: accanto a quelle donne baciate dalla scienza – una casalinga disperata, una detective, una hacker, un'ucraina omicida e via dicendo – c'erano anche, a sorpresa, cloni uomini. Il Progetto Castor e i suoi spietati assassini dalla stessa faccia: l'altro lato del medesimo esperimento. Si parte da loro, subdoli e manovrati dall'alto, e sono tutti Ari Millen: uno che è bravo, ha una faccia pure interessante, ma vuoi paragonarlo forse al camaleonte – e uragano - Tatiana? Consideriamo comprimari, e aspiranti villain, che sanguinano a volontà, ma non hanno il carisma sperato. Consideriamo che il parlare di fantascienza-fantascienza risulta incomprensibile, e che il succo della vicenda – clonazioni e compagnia bella – almeno io non lo seguo affatto bene, quando dovrebbe essere il fondamento di tutti e dieci gli episodi, da patti. Consideriamo una parte centrale – con le sestra Sarah e Helena intrappolata nella base dei cattivi – che non vedevo davvero l'ora finisse. Cosa resta? Una protagonista straordinaria che tutto può, e vabbè, e i siparietti comici messi in atto dagli amici giulivi, dalle massaie che si danno allo spaccio di stupefacenti causa Breaking Bad, dai karaoke intonati nei fumosi bar londinesi. Una terza serie, dunque, che si ricorda più per l'ordinario che per lo straordinario. Se laboratori e intrighi organizzati da menti superiori non mi hanno coinvolto a dovere – con Sarah, autentica protagonista, che appare sottotono e Cosima che, alla Nolan Ross, ci intrattiene con triangoli in rosa di cui importa poco, nonostante lo splendore delle due pretendenti al suo cuore -, hanno saputo farlo l'impresa di famiglia di Alison e Donnie – e quell'ex che spunta dal passato non è forse il Justin Chatwin di Shameless? - e gli scleri della pazza Helena che a volte si rivela un agnellino, a volte un leone, ma è sempre e comunque una forza. Soprattutto se condivide lo stesso tetto, per un arco di episodi, con la mia spacciatrice – e madre di famiglia - preferita: a quanto, ci chiediamo tutti, una sit-com sulle due? (7)
What Lives Inside miniserie tv Uno scrittore amato da generazioni di bambini muore all'improvviso. Al suo funerale, quel figlio con cui non ha mai avuto un gran rapporto – lui che è stato padre metaforico di tanti ragazzini, ma non del sangue del suo sangue. Tra le chiacchiere di circostanza e le condoglianze non sentite fino in fondo, quel bambino solitario diventato uomo e, nel laboratorio del genitore, in mezzo a modellini e bozze, scorge una porta segreta. Quella che porta al mondo interiore del papà. Sarà realtà o immaginazione? Nel cast, Colin Hanks – figlio di un padre che non troppo tempo fa è stato amatissimo come quello del protagonista -, mamma Catherine O'Hara e, in una comparsata delle sue, il fresco vincitore dell'Oscar per Whiplash, J.K Simmons. What Lives Inside – strano prodotto di cui mi sfugge la definizione: come li chiamate quattro episodi totali di dieci minuti ciascuno? - è una colorata e malinconica creatura fatata, che ha qualcosa di Big Fish e qualcosa di Alice in Wonderland. Le ispirazioni e l'affetto del Burton migliore, gli effetti speciali di quello peggiore – nonostante un budget altissimo e un lato grafico ottimo. Quaranta minuti sono un po' pochi per appassionarcisi davvero, ma visivamente, questo, è un gioiello che non lascia indifferenti. Il trionfo dello schermo verde, l'ennesimo, che arriva a modo suo anche dalle parti del cuore. Per forza di cose, si ferma prima di appassionare, ma guardato come un esperimento – un inedito buona la prima – lascia confusi perché è già finito, e come è possibile?, ma incantati perché raramente sul piccolo schermo del nostro computer, almeno che non si parlasse di un film piratato, sono passati sprazzi di luce - e note - tanto suggestivi. (6,5)

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