I tempi del lavoro blindato nelle pubbliche amministrazioni stanno tramontando. Parola di giudice…

Creato il 19 marzo 2011 da Iljester

Un tempo si diceva che se venivi assunto dall’amministrazione pubblica, il tuo era un matrimonio lavorativo blindato. Nessuno poteva licenziarti, mandarti via… insomma revocarti il rapporto di lavoro, perché le amministrazioni pubbliche non licenziano. Magari assumono, anche quando non servono nuovi dipendenti, perché tanto paga Pantaleo… Eppure, anche quei tempi e quella mentalità sono cambiati. Oggi pure nella pubblica amministrazione non è difficile venir licenziati. Per fortuna. Soprattutto quando ci sono persone che scambiano il proprio rapporto di servizio per un castello di diritti senza alcun dovere o sacrificio. Perché è bene dire che il lavoro, è sì un diritto, ma è anche un dovere. L’uomo attraverso esso si nobilita e contribuisce al benessere sociale, oltre che al suo. E se poi il lavoro è pubblico, offre pure un servizio al suo concittadino: lo stesso servizio che altri concittadini poi offrono a lui.
Però non sempre questa è la logica che muove il dipendente pubblico. Il quale, trovandosi spesso in una posizione di potere e di funzioni «indispensabili», pensa che tutto gli sia dovuto e che niente deve agli altri. Non lo deve al proprio datore di lavoro (lo Stato o altro ente pubblico), che semmai è solo un fornitore di stipendio mensile, e non lo deve al cittadino, che semmai è solo uno scocciatore che viene a lamentarsi o a protestare, facendogli perdere tempo.
Comunque sia, la storia è quella del dipendente del sud che un dì, vincendo il concorso per entrare in una amministrazione pubblica (beato lui!), veniva trasferito al nord, sede del concorso del quale è risultato vincitore. Ma da subito è risultato chiaro che al dipendente la nebbia padana e lo smog non piacevano. E poi che dire della nostalgia di casa? Quella poi… Insomma, doveva tornare a tutti i costi al sud. Da qui l’idea della guerriglia strategica contro il proprio (datore di) lavoro, fatta di dispetti, malattia e richieste di aspettativa, alle quali si aggiungevano accuse ai superiori e colleghi di mobbing, fino alla prevedibile dichiarazione di esaurimento nervoso… Insomma, tutto pur di costringere o indurre il proprio datore di lavoro a trasferirlo al sud, a casa sua, in barba al decreto Brunetta che prevede, tra le altre cose, che chi vince il concorso, rimanga a disposizione dell’amministrazione interessata per almeno cinque anni.
Il giudice però non ha creduto a una sola parola né a una sola giustificazione offerta dal dipendente, intanto cacciato dall’ufficio. Non gli ha creduto, e ben vorrei vedere io chi lo avrebbe creduto. Anche perché, benché qualcuno lo creda, vincere un concorso pubblico non è vincere una lotteria, o un posto fisso deprivato di fatica, dedizione e sacrificio. È offrirsi per un servizio al cittadino, è mettersi a disposizione della collettività per garantire che i diritti e i doveri dei cittadini trovino il proprio naturale compimento. Certo, è un servizio che non lo si fa gratuitamente o senza diritti, poiché anche il dipendente pubblico che lo svolge deve vivere e vivere dignitosamente, ma è un servizio che lo si fa prima di tutto per amor di patria, per senso del dovere, per contribuire con il proprio sacrificio al benessere collettivo, e non già per garantirsi solo il proprio benessere a spese degli altri (cittadini, datore di lavoro o colleghi).
Spesso ai dipendenti pubblici sfugge questo aspetto (fortunatamente non a tutti), e pensano che l’essere al servizio di una pubblica amministrazione comporti solo diritti e nessun dovere, soprattutto nei confronti degli utenti, laddove invece è il contrario: l’essere pubblici dipendenti comporta soprattutto doveri nei confronti della collettività. E del resto, parla chiaro la nostra Costituzione, art. 98: «I pubblici impiegati sono a servizio esclusivo della nazione» e – art. 97 Cost. – l’organizzazione dei pubblici uffici deve garantire «il buon andamento e l’imparzialità della pubblica amministrazione».
Forse il giudice che ha deciso il caso del dipendente di cui sopra ha tenuto presente questi principi quando ha lucidamente affermato che benché non sia «in discussione che il lavoratore abbia il diritto di accesso agli atti o di rivolgere istanze al proprio datore di lavoro a tutela della condizione personale o lavorativa» è in discussione il diritto di «strumentalizzare tali prerogative con l’obiettivo ultimo di creare condizioni di disagio talmente elevato nell’ambiente di lavoro da costringere l’amministrazione ad accettare il trasferimento del ricorrente nella sede da lui ambita, pur di porre fine a tale contegno. Si tratta di un atteggiamento inaccettabile».
E direi proprio che lo è, soprattutto davanti a quelle migliaia di giovani disoccupati che vivono alla giornata senza uno straccio di diritti, ma con solo e soltanto doveri. Però possiamo consolarci: il dipendente è comunque riuscito nel suo intento. È tornato a casa sua, pur senza lavoro e senza stipendio. Complimenti a lui…


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