Una vivace ironia pervade poi intimamente il modo in cui ogni personaggio e ogni evento è rappresentato, in maniera da trasformare una storia che raccontata in qualunque altro modo risulterebbe drammatica, in un colorato affresco surreale. Ingannare e depistare lo spettatore, facendogli condividere da una parte il punto di vista dei personaggi, ma fornendogli dall’altra una visuale privilegiata da cui poter vedere la verità, è infine un altro punto di forza. È un modo per strizzare l’occhio al pubblico, ulteriore elemento che lo accomuna al lungometraggio di Jean-Pierre Jeunet.
I film di Wes Anderson sono dotati indubbiamente di una personale e riconoscibile cifra stilistica. Due effetti di solito considerati invadenti, fin troppo scoperti e persino rudimentali, sono adoperati puntualmente e strategicamente in ogni suo lavoro: lo zoom e il rallenti. E mai come in quest’opera trovano la giusta collocazione. È di un’assoluta perfezione la piccola traversata di Margot al rallentatore in contrasto con l’immobilità di Richie, che l’attende seduto dall’altra parte, inondato di luce, e che, nonostante lo sguardo perennemente coperto dagli occhiali da sole e il volto impassibile, trasmette tutta la sua gioia nel rivederla.
Lo straordinario cast di attori, alcuni dei quali tornano ripetutamente nella filmografia del regista, dà vita a figure memorabili: piene di vizi, debolezze e fissazioni, eppure troppo stravaganti per suscitare un severo giudizio, sono più una stratificazione di archetipi. Non sono dei personaggi complessi, dai toni chiaroscurali, tuttavia nella loro chiarezza brillano di più sfaccettature. Quelle di una vita segnata da strepitosi successi e terribili fallimenti, segreti, manie, incomprensioni e rancori covati e scaturiti dal conflittuale ambito familiare. Il loro microcosmo è la famiglia Tenenbaum, alla quale essi sono profondamente ancorati sebbene fonte di ogni male.
Nelle pellicole di Wes Anderson i personaggi si stagliano nettamente su uno scenario che si rivela il loro habitat ideale. In Rushmore (1998) si trattava della prestigiosa scuola del titolo, in Le avventure acquatiche di Steve Zissou (2004) della nave Belafonte dal singolare equipaggio, in Il treno per il Darjeeling (2007) dell’India primitiva e mistica e nella saga dei Tenenbaum, ovviamente, della casa di famiglia, sotto il cui tetto ognuno trova protezione o qualcosa che aveva dimenticato o nascosto di sé. Perché quello che conta di più non è riconciliarsi col nucleo familiare quanto con sé stessi.