«Amica mia, ti scrivo da Mosca, dove sono arrivato il 14 settembre. La città è grande come Parigi. Ci sono seicento campanili e più di mille bei palazzi, è proprio fornita di tutto. La nobiltà è partita, hanno costretto anche i mercanti a partire, il popolo è rimasto. La mia salute è buona, il raffreddore è passato. Il nemico si ritira, a quanto pare, su Kazan. Questa bella conquista è il risultato della battaglia della Moscova». Con queste parole cariche di entusiasmo Napoleone si rivolge a Maria Luisa d'Austria - consorte del condottiero francese - all'indomani della conquista della capitale russa. In realtà non c'è quasi nulla di vero in questa missiva: Mosca in pochi giorni s'è trasformata in una distesa deserta di vagabondi ed ex carcerati, prima di essere consumata dalle fiamme appiccate dagli uomini della polizia locale, per privare di ogni approvvigionamento gli invasori. È stato il governatore militare Fedor Rostopcin a ordinare di evacuare la città e di portarsi dietro tutti i viveri. Per Napoleone le cose si mettono male fin dall'inizio. L'inverno è alle porte e nonostante le vittorie ottenute lungo il cammino della Grande Armata, c'è il serio rischio che i russi possano avere la meglio. Mentre le fiamme divampano i soldati di Napoleone, per fame e rabbia, razziano tutto ciò che incontrano sul loro cammino: gioielli, dipinti, libri, pellicce, mobili, reliquie, che si vanno a sommare a quelli accumulati durante la battaglia di Borodino, del 7 settembre 1812, contro le truppe comandate dal generale Kutuzov. Trovano anche l'oro. Moltissimo oro. Alcuni esperti parlano di un tesoro di ottanta tonnellate d'oro. Ma l'umore del Piccolo Caporale è sempre più cupo. Peraltro soffre di disuria, patologia che - forse a causa di una cistite - gli impedisce di urinare regolarmente. Non comprende la strategia del nemico. Lo zar Alessandro I è una specie di fantasma: né si vede, né si sente. Tuonano, però, le sue parole redatte qualche mese prima in una lettera alla sorella: «Bonaparte crede che io sia uno sciocco. Ma si sbaglia. Ride bene chi ride ultimo». Parole che si riveleranno profetiche. Gli incendi avvampano per quattro giorni di fila: l'80% delle case della capitale russa viene ridotto in cenere. Sono costruite in legno, non ci vuole molto. Gli uomini della Grande Armata ricevono l'ordine di scovare gli incendiari, indiavolati dalla presenza del nemico, abituati ormai a soprannominare Napoleone "le monstre corsicain" (il mostro corsico): molti, completamente ubriachi, vengono fucilati sul posto. Alcuni subiscono l'amputazione della mano. Ma le cose non cambiano. Arriva il 19 ottobre, le temperature si abbassano sensibilmente, Napoleone non ha altra scelta: deve ritirarsi. Di retroguardia, il maresciallo Mortier con diecimila uomini. Il cammino dei francesi è preceduto però da quello di Kutuzov che, con la cosiddetta tecnica della "terra bruciata", priva i francesi della possibilità di accamparsi e rifocillarsi: i villaggi vengono rasi al suolo e il cibo viene fatto sparire. A Malojaroslavez, Kutuzov, costringe i francesi a diciotto ore consecutive di combattimento. Gli scontri si ripetono a Viasma e a Krasnoi. La colonna francese si trasforma in un'immensa striscia di "spettri". Gli storici raccontano di soldati che per sopravvivere uccidono il proprio cavallo. C'è chi infila direttamente la testa nelle viscere dell'animale per recuperare il fegato. Chi riempie secchi di sangue caldo da bere all'istante. Si temono anche i contadini. Le voci che girano sono tutt'altro che confortanti. Gli abitanti locali impalano i francesi catturati o li affogano in pentoloni di olio bollente. Le prove arriveranno con le dichiarazioni di Boris Ukskull, un ufficiale russo che, reduce dalla guerra, racconterà di aver visto i partigiani pagare due rubli per comprare prigionieri francesi e divertirsi torturandoli. Quando non sono i contadini a preoccupare l'incedere di ciò che resta della Grande Armata, ci pensano i cosacchi, frutto del mescolamento di popolazioni nomadi tartare e dei cosiddetti "ukhodniki", i mercenari delle steppe russe. In occasione di un raid cosacco gran parte del bottino accumulato durante i saccheggi ritorna nelle mani dei russi. «I cosacchi, nei pressi di Smolensk, hanno attaccato e saccheggiato il convoglio con i trofei di Mosca», racconta Napoleone nelle sue lettere. «Fra le tante cose hanno anche portato via l'enorme croce di Ivan Il Grande, sottratta alle stanze del Cremlino». E qui iniziano i dubbi. Dalle ricostruzioni storiche, infatti, solo una parte del "tesoro" francese risulta trafugata: il resto del bottino dove è finito? Ebbene, la domanda potrebbe trovare una risposta proprio in questi giorni. Da giugno, infatti, sono iniziati gli scavi in Russia, in una località segreta, per riportare alla luce ciò che Napoleone ha lasciato dietro di sé, provvidenzialmente nascosto sottoterra. Stando agli studi effettuati dallo storico russo Aleksandr Serjoghin, durante la ritirata di Napoleone, un gruppo di soldati, prese una strada diversa da quella intrapresa dalla Grande Armata: anziché puntare su Smolensk - città raggiunta da Napoleone il 9 novembre, quando il termometro segna già dodici gradi sotto zero - deviano il cammino verso sud est, in corrispondenza delle città di Kaluga e Elnja. Siamo a circa trecento chilometri dalla capitale russa, poco lontani dalla Staraja Smolenskaja, la vecchia strada per Smolensk, l'unica esistente fino alla costruzione, il secolo scorso, della direttissima Mosca-Minsk. In questo angolo top secret dell'ex Unione Sovietica - ricoperto di foreste di pini, abeti e betulle, ma anche acquitrini, paludi e torbiere - Serjoghin ha compiuto nei mesi scorsi più di un sopralluogo, trovando tracce inequivocabili dell'armata napoleonica, fra cui divise militari, cinture, bottoni, scarpe, munizioni. Qui sarebbe dunque giunta, durante l'inverno del 1812, una parte dei numerosi carri stracolmi di oro e molti degli zaini dei soldati carichi in media d'una decina di chili di oggetti preziosi ciascuno. Ma come ha fatto Serjoghin a individuare il punto preciso dove iniziare gli scavi? Si è affidato alle ricerche condotte dal matematico russo - emigrato in Francia - Roman Aleksandrovic. Lo scienziato avrebbe preso spunto da un dipinto scoperto in un archivio storico riportante il ritratto di un funzionario napoleonico. C'è un cappello tricorno posato a terra, sovrastato da un cielo stellato con gli astri disposti non a caso: le coordinate indicanti la X dove andare a cercare l'oro del Piccolo Caporale. In pratica, la mappa del tesoro. Sull'argomento, in realtà, circolano anche molte leggende, fra cui quella secondo la quale, nella zona segnalata da Serjoghin, più volte sarebbero sopraggiunti dei fantomatici francesi, poi dileguatesi di gran lena, carichi di gioielli e oro. Ma del resto è l'intera esistenza di Napoleone a essere avvolta nella leggenda. Fu lo stesso imperatore di Francia ad alimentare il suo mito e tutto ciò che lo circondava, controllando i principali organi di stampa dell'epoca e facendogli dire solo ciò che voleva lui: gli eroi dello scrittore francese Stendhal, per esempio, sognavano "le nevi di Mosca e il sole delle piramidi", non a caso due fra i tanti luoghi visitati dal condottiero francese. Altre leggende riguardano Napoleone raffigurato con la mano destra infilata nel panciotto, per comunicare segretamente con esponenti del mondo della massoneria; un platano piantato personalmente dall'imperatore francese a Marengo, in provincia di Alessandria, dopo la storica battaglia; mentre John Lattimer, della Columbia University, racconta che il Piccolo Caporale non era molto dotato sessualmente, avendo un pene lungo quattro centimetri che diventavano sei durante l'erezione. Per tutta questa serie d'ipotesi e congetture, molti storici ritengono l'impresa di Serjoghin attendibile fino a un certo punto. La maggior parte di essi concorda nel dire che, in effetti, i francesi fecero man bassa di tutto ciò che incontrarono di prezioso durante la terribile campagna di Russia, tuttavia sono quasi convinti che, gran parte del bottino sequestrato dai transalpini, finì nelle mani dei cosacchi, venne perso, o abbandonato appositamente per consentire ai soldati - già sufficientemente provati da stenti e fame - di muoversi con maggiore facilità. Nulla, dunque, che abbia a che vedere con un inestimabile (e fino a oggi introvabile) tesoro sepolto nel cuore della taiga russa. «Sulla base di tutte le testimonianze disponibili, in particolare le numerose memorie pubblicate dai protagonisti», racconta a newton Vittorio Criscuolo, del dipartimento di Scienze della Storia e della Documentazione Storica dell'Università di Milano, «l'esercito francese ritornò da Mosca per mettersi sulla via della tragica ritirata carico di bottino. Fra le tante, riferisco quella di Philippe-Paul de Ségur, pubblicata nel 1824 e poi più volte ristampata, con molte traduzioni in lingua italiana, che si può considerare un testo ormai classico sull'argomento. Lo storico narra che l'esercito era disposto su tre o quattro file di lunghezza infinita, in una confusione di carriaggi, lussuose carrozze e altri veicoli di ogni genere, che trasportavano il ricco "tesoro". Io, però, aggiungo che non è difficile pensare che la maggior parte di quel bottino sia stato abbandonato nel corso della ritirata e sia finito nelle mani dei contadini. Non credo, in ogni caso, che gli esiti della ricerca di Serjoghin possano essere di qualche interesse per gli studi napoleonici». Che sia vera o meno la tesi sostenuta da Serjoghin lo vedremo presto, in ogni caso vale la pena ricordare che Napoleone ebbe a che fare anche con molti altri "tesori". L'imperatore francese iniziò la sua carriera amministrativa, fondando - con un nucleo di capitali privati - la Banca di Francia, elemento fondamentale per gli sviluppi del credito commerciale e industriale. Risanò la moneta: per un certo periodo nel cambio il franco superò la sterlina quotata 17 franchi. Le guerre fra il 1805 e il 1809 erano costate 310 milioni, ma ne avevano reso fra taglie e indennità 743, da sommare ad altri 700 milioni di beni confiscati. Nel 1810 costituì il "demanio straordinario", che affidò al senatore Jacques Defermon, una cassa cui far riferimento in caso di grave pericolo per lo Stato. Nel 1814 - con il crollo dell'impero, l'invasione della Francia e l'abdicazione di Napoleone - rappresentava ancora una rendita annua di 132 milioni. Infine il più grande "tesoro" di Napoleone: l'esercito di uomini che mise in piedi, il più grande della storia, risalente al trattato di Lunèville del 1801. A Posen, prima di partire alla conquista di Mosca, l'esercito di Napoleone è rappresentato da 678mila uomini provenienti da circa venti nazioni, 11mila ufficiali, 344mila sotto ufficiali; fra le file di soldati anche 40mila italiani, guidati dai valorosi generali Lechi e Pino. Un tesoro che però si dissolve velocemente: è il 10 dicembre 1812, una gelida giornata d'inverno, quando Napoleone giunge in slitta a Varsavia, affiancato da 30mila uomini con le divise lacere, in preda alla fame e alla disperazione. Sono tutto ciò che resta della Grande Armée. Scriverà Montesquieu: «L'Armata brillante, innumerevole e terribile non esiste più. Le battaglie l'hanno decimata senza vincerla, ma il vento del nord, o forse la voce di Dio, è passato su di essa».
(Pubblicato sul numero 6 di Newton)