In questi giorni anche le scuole della nostra regione sono raggiunte dallo sciame delle prove Invalsi, l’Istituto per la valutazione del sistema scolastico nazionale. Si tratta, come dovrebbe essere noto (ma davvero lo è?), di test standardizzati – qualcuno, sbagliando aggettivo e con ciò creando non poca confusione, li definisce “oggettivi” – introdotti per misurare conoscenze e competenze degli alunni. Il sistema tiene essenzialmente conto della variabile temporale, essendo infatti somministrati due volte, all’inizio e alla fine dell’anno scolastico. Sono quindi concepiti al fine di valutare il progresso dei processi di apprendimento secondo una chiave tendenziale.
Siccome però in Italia tutto, o comunque moltissimo, diventa oggetto di polemiche tra “tifoserie” avverse, anche riguardo a questo argomento si è scatenata una rissa tra fautori e denigratori. Situazione aggravata dal fatto che molta veemenza argomentativa viene spesa in modo inversamente proporzionale al grado di conoscenza delle finalità concretamente raggiungibili da questo tipo di prove. In un ottimo articolo pubblicato qualche tempo fa sul sito “lavoce.info” (> link ), Alberto Martini ha scritto: “I test scolastici sono come quelli clinici, servono a identificare patologie, debolezze, carenze. Ancora di più assomigliano agli studi epidemiologici perché identificano problemi a livello collettivo, e non a livello del singolo paziente, pur richiedendo dati sui singoli pazienti”. Sarebbe dunque vano attendersi dai risultati un effetto risolutivo a proposito dell’annosa querelle “meritocratica” legata a individualità responsabilizzabili in modo puntuale e meccanico: se i test vanno bene allora si promettono finanziamenti e lodi, se vanno male si paventano tagli e rampogne. Purtroppo, però, quando se ne discute è di questo che si discute.
Sottolinea ancora Martini: “Test clinici e scolastici condividono un’altra caratteristica: hanno senso se c’è la volontà di curare il paziente una volta individuato un problema, non di colpevolizzarlo o peggio di punirlo”. Questa frase può essere completata da un corollario: anche qualora i test non evidenziassero particolari problemi – o magari facessero registrare miglioramenti sensibili rispetto ai risultati ottenuti in precedenza, non di rado conseguiti dopo che gli alunni sono stati “addestrati” a risolverli – un certificato di buona salute scolastica dipenderà sempre e comunque dall’esame di tutti gli altri fattori che il test non può contribuire a individuare (e non sono ovviamente pochi). L’importante sarebbe cominciare a mantenere la scuola all’interno di un cerchio di riflessione e monitoraggio non episodico e parziale, dotandola dei mezzi, in primo luogo economici e umani, dei quali essa ha realmente bisogno. In questo la nostra autonomia speciale può essere utilizzata con un’ottica illuminata.
Corriere dell’Alto Adige, 12 maggio 2011