È in uno di questi campi, a Servigliano nelle Marche, che nel 1948 nasce il bambino la cui vicenda, narrata in prima persona, si intreccia a quella degli italiani a cui la politica post bellica riservò un supplemento di tragedia e di dolore. La voce del protagonista attraversa gli anni del Dopoguerra narrando le vicende della comunità degli esuli sradicati dalle loro vite, assillati dalle necessità pratiche, separati dalle loro famiglie: Diego Zandel è quel bambino nato nel campo profughi. Il lettore lo segue nella vita nel Villaggio dei profughi a Roma, poi a Fiume quando, per la prima volta, accompagna la madre oltre il nuovo confine, e s’imbatte nella nuova realtà, tra lingue, dialetti, parenti e amici diversi, che amplieranno i suoi orizzonti.
Con una singolare tecnica narrativa le memorie famigliari e personali si alternano a storie di persone comuni travolte dalla Storia, come il soldato tedesco Ernst, prima occupante temuto e poi prigioniero dei titini; Remigio, comunista italiano arrestato dalla polizia jugoslava e scomparso per sempre; il fiumano mezzo croato e mezzo italiano, mai stato fascista ma vessato dagli jugoslavi per il suo essere anche italiano. Sono questi i testimoni muti citati nel titolo, vittime degli autoritarismi del secolo breve.
I profughi e i rimasti, gli slavi e i fascisti, i martiri delle foibe, le figure che danno titolo ai capitoli del libro sono i tasselli di una storia che per decenni è stata sepolta nel silenzio. Colpisce la capacità di Zandel di restituire l’Esodo in tutta la sua complessità umana, ideologica e politica. All’inizio della narrazione c’è l’eco del rancore dei profughi nei confronti dei druzij, i “compagni” jugoslavi, molto simile a quello che negli anni della guerra era stato riservato agli occupanti tedeschi; pagina dopo pagina l’emergere dell’insofferenza nei confronti dei pregiudizi di quanti considerano i profughi dei fascisti, così come dei profughi nei confronti dei “rimasti”, considerati tutti o quasi collaborazionisti degli jugoslavi, e c’è soprattutto la presa di coscienza di un’identità, quella istriana e fiumana, erede di un passato che univa, e non di rado mescolava, le diverse etnie e culture che avevano messo radici nella stessa regione.
Romanzo della memoria ma anche romanzo di formazione di una coscienza civile che si impone di cercare oltre gli schemi ideologici le verità umane nascoste dalla Storia.
Diego Zandel è nato nel campo profughi di Servigliano da genitori fiumani. È autore di diversi romanzi, tra i quali Massacro per un presidente (1981), Una storia istriana (1987, ripubblicato nel 2010 con il titolo Il figlio perduto), I confini dell’odio (2002), L’uomo di Kos (2004) e Il fratello greco (2010). Molti i suoi racconti pubblicati in antologie: da uno di essi – Stendhal, il carbonaro – è stato tratto uno spettacolo teatrale. Ha scritto, in collaborazione con Giacomo Scotti, Invito alla lettura di Ivo Andric, Premio Nobel jugoslavo per la letteratura (Mursia 1981). Collabora con «La Gazzetta del Mezzogiorno» e «Il Piccolo» e cura un blog di interventi e discussioni.
Con I testimoni muti prosegue il lavoro editoriale di Mursia che da anni vede in prima linea la casa editrice milanese nel ricordo dell’esodo giuliano-dalmata e di tutta la questione istriana (350mila uomini e donne costretti ad abbandonare le proprie case; migliaia di vittime scomparse, seppellite vive nelle foibe del Carso), un tema per molto tempo ingiustamente ignorato o rimasto racchiuso in ambito locale.
Ricordiamo qui, Pola, Istria, Fiume 1943 – 1045. L’agonia di un lembo d’Italia e la tragedia delle foibe di Gaetano La Perna (pagg. 478; euro 19,70), rigoroso contributo che con competenza ricostruisce il doloroso racconto di quella che è stata una vera e propria pulizia etnica fornendo in appendice l’elenco dei nomi delle vittime.
Fratelli d’Istria. Italiani divisi di Guido Rumici (pagg. 210; euro 13,50) è il resoconto dei profondi mutamenti storico-sociali che l’esodo e tutte le vicende politiche hanno determinato sul confine orientale descritte sulla base di una puntuale cronologia dei principali avvenimenti, delle testimonianze di alcuni sopravvissuti ai lager titini e degli istriani d’origine italiana che hanno deciso di rimanere in quelle terre anche dopo la fine del conflitto. In appendice, alcuni documenti fondamentali come il Memorandum di Londra sul Territorio Libero di Trieste che fu siglato tra i governi d’Italia, Regno Unito, Stati Uniti e Jugoslavia.
Dello stesso autore segnaliamo inoltre Infoibati, i nomi, i luoghi, i testimoni, i documenti (pagg. 496; euro 22) che, grazie a un lavoro senza precedenti realizzato sulla base di una ricca documentazione di fonte non solo italiana ma anche jugoslava e inglese, riporta alla luce senza pregiudizi ideologici una delle pagine più oscure della nostra storia ridando voce alle vittime delle foibe, migliaia di donne e uomini che, tra il settembre del 1943 e la primavera del 1945 scomparvero nelle cavità naturali del Carso nei territori occupati dal Movimento Popolare di Liberazione del maresciallo Tito.
Infine Ci chiamavano fascisti. Eravamo italiani di Jan Bernas (pagg. 192, euro 16,00; prefazione di Walter Veltroni), mosaico di testimonianze delle migliaia di italiani che, alla fine della Seconda guerra mondiale, si trovarono senza alcuna difesa di fronte all’odio etnico-nazionalista del regime di Tito, deciso a jugoslavizzare quei territori. In 350mila decisero di abbandonare tutto e di fuggire ma ci fu anche chi rimase riscoprendosi giorno dopo giorno straniero a casa propria. A questi, Bernas unisce il racconto sugli italiani del controesodo: comunisti partiti alla volta della Jugoslavia per costruire il ‘Sol dell’avvenire’. Un sogno finito nei campi di concentramento titini.