di Pierluigi Montalbano
Si tratta di antichi santuari a cielo aperto, dedicati ai neonati defunti, diffusi nell’area mediterranea centrale. Sono assenti in Libano, Spagna e Ibiza. Li troviamo in Tunisia (Soùsse e Cartagine), Sicilia (Mòzia, Solùnto e Lillibèo) e Sardegna con Tharros, Sulci, Monte Sirai, Nora, Cagliari e Bithia. Sono circondati da un recinto sacro all’interno del quale si depongono i resti dei bimbi dentro urne in ceramica. In superficie, le sepolture sono segnalate da stele in pietra. I tofet, generalmente, si trovano in posizione periferica a nord degli abitati e non vengono mai spostati: qualora si dovessero fortificare le città si aggirano modificando il percorso delle mura. Le urne contengono le ceneri di feti, fanciulli, infanti, agnelli, capretti e uccelli. Ogni tofet è dedicato a due divinità: Baal Ammon e Tanìt. Il primo è una divinità che i greci identificano con Krono e i romani con Saturno. Tanìt è la paredra femminile, attestata come manifestazione di Baal, lo affianca dal V a.C. per poi sostituirlo. E’ una divinità orientale raramente attestata in Libano, ma in Occidente diviene la più importante con Astarte. Greci e romani la assimilavano a Era o Giunone. Prima del tofet di Cartagine sono stati individuati quello di Nora, precisamente sulla spiaggia orientale della città nel 1889, e quello di Mozia, in Sicilia, ma si pensò a necropoli ad incinerazione. Solo a Cartagine furono eseguite analisi osteologiche sui resti e ci si rese conto che si trattava di bambini. Gli studiosi ipotizzarono che si trattasse di sacrifici umani, come quelli celebrati in oriente vicino a Gerusalemme e menzionati in alcuni brani delle Sacre Scritture. Ci sono diversi passi che parlano di tofet e di figli offerti agli dei con il passaggio dentro il fuoco. I ricercatori si convinsero che i tofet vicini a Gerusalemme di cui parlava la Bibbia, nel Deuteronomio e nel libro dei Re, potevano avere la stessa matrice. Fino agli anni Ottanta, dalla lettura delle fonti classiche (Diodoro, Plutarco, Platone, Tartulliano), si è pensato a un rituale con sacrificio di bambini a Krono (Baal-Ammon o Saturno) in caso di grave pericolo per la popolazione. Si tratta, tuttavia, di un rituale non accettato da Dio. Il libro dei Re cita un luogo chiamato tofet in un passo ambientato nei pressi di Gerusalemme. Le fonti riportano: “Lì farò il Tofet, nella valle di Ben Innom, e nessuno faccia più passare per il fuoco i propri figli in onore di Moloch”; e ancora, in Geremia: “Costruiscono un altare di Tofet nella valle di Ben Innom per bruciare i propri figli nel fuoco, ma io non ho comandato né mai mi venne in mente”. Sempre la stessa fonte riporta:
“Hanno eretto un altare per bruciarvi col fuoco i loro figli in olocausto a Baal, cose tutte non comandate da me, né mai venutemi alla mente, perciò questo luogo non si chiamerà più Tofet, né Valle di Ben innom ma Valle della strage”.
Quindi il Tofet è un luogo in cui si svolgeva un rito pagano, non voluto da Dio, che prevedeva il sacrificio di far passare i figli nel fuoco. Nel momento in cui gli archeologi hanno trovato a Cartagine le urne con le ceneri di centinaia di bambini, hanno pensato al santuario citato in oriente dalla Bibbia.
Si conoscono altre fonti che raccontano di sacrifici. Dice Gaudesio:
“Era usanza presso gli antichi, in caso di grave pericolo, che i capi della città o della popolazione, per evitare la distruzione di tutto, facessero sacrificio dei più cari dei loro figli, come riscatto per i demoni vendicatori. Quelli che erano prescelti venivano sgozzati nel corso di un rituale cerimoniale”.
Secondo Moscati nei tofet c’erano i resti di sacrifici di quei bambini non ancora passati attraverso il rito di introduzione nella comunità (battesimo o circoncisione). Non facevano ancora parte del mondo degli adulti e non potevano essere sepolti con loro. Dovevano essere purificati col fuoco e sepolti a parte, in apposite urne. In qualche caso si sacrificava alle divinità qualche piccolo animale. Le iscrizioni dei tofet riportano formule rituali ripetitive: denominazione dell’oggetto offerto alla divinità (stele, dono), denominazione del rito (molch), il verbo della dedica o del dono, il nome e la genealogia dell’offerente, la divinità (Baal-Ammon o Tanìt) e il motivo dell’offerta. Il rituale si concludeva con la frase: “…perché ha ascoltato la sua voce”. Ad esempio: “STELE DI MOLCH OFFERTA AL SIGNORE BAAL AMMON CHE HA DEDICATO SULL’ALTARE (tizio) FIGLIO DI (caio) FIGLIO DI (sempronio) PERCHE’ HA ASCOLTATO IL SUONO DELLA SUA VOCE”, cioè perché ha esaudito la richiesta, la preghiera, ha concesso la grazia.
I monumenti votivi si dividono convenzionalmente in cippi e stele funerarie. Il primo è una pietra appena sbozzata, generalmente aniconica, dove prevale l’altezza sulle altre dimensioni e rappresenta la divinità. È posto come segnacolo per individuare la fossa, infisso nel terreno o incastrato sopra un basamento in pietra. Queste basi sono costituite da un plinto tronco piramidale, sormontato da un listello rettangolare con sopra una gola egizia. Alcuni cippi possiedono elementi simbolici come quello di Tanìt ma non conosciamo l’evoluzione di questo segno. Lo troviamo in contesti funerari, sacri e abitativi, quindi un segno con molti significati. Fra i cippi più antichi abbiamo quelli che rappresentano un trono (stele trono e cippi trono), a volte evocato da una semplice sgusciatura che separa la spalliera dalla seduta, altre volte con i braccioli e con il simbolo divino aniconico al centro. In qualche caso un idolo a forma di bottiglia sostituisce il betilo. Il trono può essere affiancato da due bruciaprofumi.
Nell'immagine: oggetti di sepoltura trovati a Tharros esposti al Museo Archeologico di Cabras