I vecchi e i giovani

Da Casarrubea

Il vecchio e il mare - Hemingway -

Mettiamo da parte la saccenteria di quelli che rispondono sempre a tutto con le certezze della scienza. Alcune domande ce le possiamo porre pure noi. Ad esempio sui giovani e sui vecchi. E sull’argomento possiamo pure tentare una risposta, non da manuale.

Ci sono differenze, innanzitutto. Fisiche e comportamentali. Su quelle fisiche non vale la pena discutere. Sulle altre la questione si fa più complessa.

C’è un dato, ad esempio, che ricorre con una certa costanza. I giovani interrogano spesso i vecchi anche se non fanno domande. Si pongono dei perché. Un’abitudine, questa, che ad un certo punto, perdiamo. Da piccoli ci poniamo tante domande, poi, a mano a mano che cresciamo, ci interroghiamo sempre  meno e ubbidiamo sempre di più. Fino ad avere un dio, un totem, un santo.

Questo fatto è contro natura perché – non mi sto creando un alibi a qualche mia ruga – la giovinezza non ha età. Si può essere vecchi a vent’anni e giovani a novanta.

Ho conosciuto, una decina d’anni fa, una vecchia straordinariamente giovane. Aveva cent’anni compiuti. Si chiamava Carol Lunetta Cianca. Viveva a Termini Imerese ed era stata segretaria dell’ambasciatore italiano a Washington al tempo di De Gasperi, Alberto Tarchiani. Quando l’America entrò in guerra lei fu inquadrata nell’OWI, l’organizzazione statunitense per la guerra psicologica. Quando l’ho incontrata per la prima volta, viveva da sola e si autogestiva con grande disinvoltura. Usciva persino per fare la spesa. Vista la sua disinvoltura nelle faccende quotidiane, le suggerii di scrivere le memorie della sua vita. Non mi aspettavo una risposta affermativa. E siccome ciascuno è vittima delle sue stesse idee, a me toccò digitare l’intero testo al computer. Dunque le scrisse, trovò pure un editore, ed io presentai il libro, se non mi sbaglio, a Enna e a Termini.  Sale stracolme di gente.

Non aveva mai avuto il coraggio di dirmelo, ma una volta che la andai a trovare mi fece notare che il mio inglese era molto carente e si offrì di darmi delle lezioni di lingua. Purtroppo non mi fu possibile accontentarla perché allora dirigevo una scuola e mi risultava difficile spostarmi da Partinico a Termini Imerese. Nell’affare ci rimisi io.

Oltre alla voglia di fare, la giovinezza è anche un’età. In termini botanici diciamo che è una pianta in evoluzione, un fiore che sta per sbocciare o già sbocciato, che non dà segni esteriori di volere appassire. O un frutto: prima acerbo, poi con il passare degli anni sempre più dolce. Possiamo dire che la giovinezza è la fase del frutto tenero, ma acerbo. La vecchiaia è quella del frutto al massimo della sua maturazione e gradevolezza. Nonostante la contraddizione dei termini tutto questo ha a che fare con la giovinezza, con quel processo per cui una cosa o una persona si sviluppano fino al punto in cui danno il massimo di se stessi. Diciamo che raggiungono il loro scopo.

La vecchiaia è meno definibile. Non va per generazioni, e non segue una sua linea evolutiva. Ti succede tutti i giorni. Incontri una persona e scopri che appartiene a un’epoca remota. Poco conta la sua età. E’ vecchia, senza futuro. Si può essere senza futuro anche con le modernissime musichette, con le attraenti passerelle e sbafando  in piazza. E, in effetti, la vera condizione del vecchio è il suo essere privo di  futuro. Con la variante che non è una questione di fasce di età. E’ un fatto interiore che coincide con la quiescenza, un termine che deriva dal latino quiescere, che significa riposare, stare in pace, essere tranquillo, essere inattivo, dormire o essere immobile, desistere, omettere. Tutte azioni che sono detestate da coloro che, pur avendo una certa età, tuttavia considerano l’attività, l’impegno, la veglia, il movimento, la mobilitazione, l’intervento sul sociale, come un loro preciso dovere.

Posso definirmi della generazione del dopoguerra. Ho attraversato anni bui, quando l’Italia era ancora in ginocchio e guardava al futuro sforzandosi di legarsi a uno Stato forte che la potesse aiutare a risollevarsi. Da nemici dell’Europa durante la nostra alleanza con il nazismo, siamo diventati filoamericani e atlantisti. In virtù del nostro anticomunismo abbiamo avuto la comprensione degli Usa che non ci hanno consegnato ai lupi mannari, avendone, tra i loro ranghi, alcuni. E così siamo decollati nel mondo sotto il vincolo di una eterna dipendenza. Siamo stati, noi italiani, come i ragazzini diventati uomini, ma che continuavano a indossare i pantaloni corti, senza accorgerci che la nostra età era mutata. E ancora li portiamo, nonostante il lungo tempo trascorso. Siamo quindi in una condizione di comicità surreale, anche se non ce ne rendiamo conto. E non c’è bisogno di fare nomi. Siamo rimasti tutti troppo giovani. Pantaloncini al ginocchio o metaforicamente con le brache alla zuava.

pantaloni alla zuava

Contiamo gli anni dalla nascita della Repubblica, la nostra, nata dalle ceneri del nazifascismo e della guerra partigiana. E’ la generazione che arriva alle rivolte mondiali del 1968: contro il potere, le autorità costituite, le verità date, l’arroganza del “sistema”. Un periodo, dunque, che comprende storicamente le contestazioni studentesche degli anni ’70, la vicenda Moro, e mille altri fatti che nel loro insieme ci danno il mosaico di un’Italia colpita dalle stragi, dalla violenza, di destra e di sinistra, dallo strapotere della mafia e dalla sua conquista del Nord della penisola e del mondo. E’ la generazione dei sessantenni, la cui caratteristica è il salto dalla fame allo sviluppo industriale.

La seconda generazione si costruisce in parte su questo lungo percorso  e arriva agli anni in cui saltano in aria Falcone e Borsellino. Il tempo in cui molti parametri cambiano e anche la memoria comincia a fare i conti con il suo passato. La mafia,  diventa per la prima volta un’organizzazione criminale e lo Stato ne sancisce le forme nel codice penale. Prima della legge La Torre, del 1982, infatti, non esisteva il reato di associazione mafiosa.

I giovani di questa generazione, nati per lo più negli anni Settanta, sono più consapevoli, ma anche più esposti ai dati della crisi sociale e istituzionale. Sono più scaltriti dall’esperienza dei loro padri e da quanto possono constatare con i loro stessi occhi. Posti al bivio tra la mafia e lo Stato molti hanno scelto la prima, ma molti altri si sono immolati per debellarla, come Giovanni Spampinato, Peppino Impastato, il giudice Rosario Livatino e tanti altri. Giovani della prima generazione.

Così è venuta su una nuova razza di mafiosi, baldanzosi nel volere sostituire i vecchi patriarchi in galera come Totò Riina e Bernardo Provenzano. Ma è nata e resterà come esempio per sempre una seconda generazione di giovani che stanno già insegnando alla generazione di oggi, la terza dal dopoguerra, quelli che hanno vent’anni o meno ciò che significa l’onore e come ci si batte per difenderlo. Nel chiuso dei propri studi o nelle piazze. Mentre l’Italia è invasa dal “virus del dominio”, da nuove lobby, di destra e di sinistra, da nuovi dei delle “zecche”. I parassiti ascesi al potere. Ecco perché abbiamo bisogno di giovani. Solo loro possono meglio di tutti capirci e costruire il futuro possibile.

Giuseppe Casarrubea


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