Era impaziente, le sue mani si muovevano come prese da scatti di tosse: nella piccola stanza sembravano le uniche cose vive; mentre i libri sugli scaffali riposavano, piccole nicchie che contenevano sapere raccolto da menti illuminate da bagliori dell’immaginazione, assistevano alla scena. Seduto sulla poltrona a tre passi da un camino spento, questa figura, silenziosa e sottile, attendeva impaziente. I suoi occhi erano chiusi, ad un osservatore poco attento, poteva sembrare dormiente ma in realtà era così vigile che la pelle era tesa più di quella di un tamburo.
Proprio come in un racconto gotico, la porta scricchiolò sotto al tocco secco di quattro colpi, che lasciarono un’eco impercettibile tra i libri e gli oggetti di quella wunderkammer. I suoi occhi si aprirono lenti, il sole che alzandosi ad est avrebbe avuto meno voglia di guardare oltre i monti era più veloce a confronto alla lentezza di quelle due perle scure che adesso fissavano la porta. I suoi occhi erano di un colore quasi indefinito, ma se dovessi dargliene uno sceglierei volentieri il rosso rubino, e le ciglia erano spade lunghe come ali di corvi. Il suo corpo non si mosse: era fisso e immobile, anche le mani si calmarono, non fece nessun cenno, nessun movimento, non sembrava intenzionato a rispondere ai colpi che l’avevano destato. Ma la porta si aprì comunque, senza nessun cigolio. Un piccolo servitore in livrea, tremante, fece capolino con una testa piccolissima e guardò nella stanza impaurito, cercava qualcuno che non subito riuscì a vedere, fin quando una voce dalla poltrona a tre passi dal camino spento parlò:
“Dimmi…”
“Lord Iblis, l’ospite farà ritardo…” disse il servitore tremante e di corsa richiuse la porta temendo una reazione brusca o qualche comando. Lord Iblis richiuse gli occhi con la stessa calma di quando li aveva aperti. Le gambe accavallate, le scarpe lucide, il vestito magenta di velluto, la camicia che spuntava dal polsino, con i suoi pizzi bianchi, ed un anello. Il sigillo del reame. Esso raffigurava una testa di capra nell’intento di divorare una rosa, cesellato su di una fascia d’oro spesso; sotto i petali di rosa, squisitamente disegnati da una mano divina, cadevano, come pioggia, sette occhi. Questo emblema era ripreso con la stessa accortezza dal tappeto posto sotto la poltrona in cui sedeva il signorotto. Una piccola ciocca rossa di capelli cadde silenziosa sul naso dritto di Lord Iblis, si era spostata dallo chignon che tratteneva tutti i capelli dietro al capo. Riaprì gli occhi di scatto, come una belva in punta:
“Non posso attendere altri millenni, non posso stare qui ad aspettare che il mite padre abbia tempo per parlare. Manderò un ultimo messaggio, e se a questo non avrò risposta…” la frase restò sospesa senza un seguito. Ma Lord Iblis si alzò dalla poltrona a tre passi dal camino e prese un po’ di cenere dal letto spento del fuoco. La raccolse con l’indice della mano sinistra e con la destra estrasse dal taschino del frac rosso una pagina di pergamena ingiallita. Si scostò dal camino e si avvicinò ad un tavolinetto di legno d’ebano posto accanto alla porta, dove poco prima il piccolo servitore aveva fatto capolino. Con l’indice nero pece inizio a scrivere:
“ Hai avuto il mio aiuto, hai promesso una ricompensa. Ho dato all’uomo la capacità di decidere, di scindere ed ho donato l’intelletto. Ho riempito le tue brocche di passione, ho versato nelle gole dei poeti le parole migliori per decantare i loro amori. Ho lasciato che la terra si riempisse di luce anche di notte, ho forato la pece dell’astro per lasciar trasparire quelle che i mortali chiamano stelle. Ho recitato la parte del bravo cattivo e dell’antagonista per antonomasia. Sono la tua nemesi. E dopo tutti questi millenni di attesa non sei ancora riuscito a trovare pochi attimi di eternità per la mia ricompensa. Riprenderò ciò che è mio, ti avverto. Insidierò nella mente dei dormienti la paura e l’abbandono, e per quanto nell’eden hai schiacciato la mia testa, oggi la incoronerò. Ma visto che mi reputo un Signore di ilare simpatia, giro per l’ultima volta la clessidra. Quando l’ultimo granello cadrà, non ci sarà nessun avvertimento che fermerà il mio pensiero. Squarcerò il velo che separa gli occhi dei mortali e farò vedere di quanta pazienza è fatto il loro creatore.”
Con un graffio dritto e profondo firmò la pergamena, e chiamò il servitore.
“Porta questa a Lui, e mandagli i miei saluti.”
Sul davanzale della finestra buia una clessidra si librò nell’aria e si capovolse. Lord Iblis si accomodò di nuovo sulla poltrona a tre passi dal camino e fissò l’albero che lento spuntava al centro della stanza. L’ultimo albero del giardino sacro. E nella notte incolta di pensieri, un uomo si alzò di scatto dal letto preso dalla malinconia e dall’angoscia di aver sbagliato tutto della propria vita. Egli era per Iblis il battito d’ali che avrebbe provocato l’uragano.
Enrico Khu Manzo
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