Ibsen: la Claustrofobica Fuga dagli Spettri del Passato

Creato il 23 dicembre 2011 da Dietrolequinte @DlqMagazine
Postato il dicembre 23, 2011 | TEATRO | Autore: Manuela Marascio

In una sera di tardo autunno, sull’elegante e luminoso salotto del Teatro Carignano di Torino, è scesa una nube scura, portatrice di una pioggia incessante e cupa, che ha ricreato quell’atmosfera desolante concepita da Henrik Ibsen mentre componeva il dramma Spettri, nel 1881. L’ingegnosa quanto scarna scenografia, grazie a un gioco di ombre e luci soffuse, trasmetteva, fin da subito, il senso opprimente di angoscia che si sarebbe progressivamente impossessato dello spettatore, avvolgendolo per poi stritolarlo. Quelle gocce riprodotte nel loro infrangersi sulle grandi finestre, erano talmente verosimili da poter essere percepite come punte acuminate, infallibili nel penetrare fino al fondo dell’anima. Ed era facile dimenticarsi, in poco tempo, del luogo e del tempo presenti, venendo assorbiti dall’inquietudine di uno spazio claustrofobico in cui gli oggetti stessi sembravano parlare, come voci provenienti dal passato. La vicenda si svolge in un ambiente di dimensioni estremamente ridotte, una casa nella campagna norvegese: le pareti domestiche diventano, così, una trappola che costringe i protagonisti a confessare verità autodistruttive, quelle verità che l’etica borghese tende a celare, attraverso una scaltra operazione di rimozione. È il meccanismo che mette in moto la signora Helene Alving, vedova di un capitano e ciambellano di corte stimato e ammirato dalla gente del luogo. Il motivo che riporta sulla bocca dei personaggi il nome del capitano Alving, è l’inaugurazione dell’asilo costruito in suo onore grazie ai soldi ereditati dalla vedova. Ma l’edificio non è nient’altro che un pretesto per ravvivare l’aurea fama di benefattore dell’uomo, nascondendo, così, i più turpi retroscena della sua vita privata. Ibsen delinea il netto contrasto tra l’esteriorità della società borghese, basata su un sistema di valori apparentemente inattaccabile, e le tentazioni devianti a cui il singolo individuo viene sottoposto, che costituiscono una pericolosa minaccia per la sua reputazione. La signora Alving incarna il ruolo tipicamente maschile dell’amministratore, non solo di beni materiali, ma anche di relazioni umane: mentre il marito viveva nel degrado e nella dissolutezza, è stata lei a gestire la proprietà e a decidere che il figlio Osvald, di appena sette anni, ricevesse un’educazione al di fuori delle mura domestiche.

Questi compare nella vicenda come il “figliol prodigo” che fa ritorno a casa dall’estero per ritrovare il calore della famiglia, lasciando dietro di sé il mondo umile e libertino degli artisti. La signora Alving ha, quindi, l’occasione per ristabilire un contatto con il figlio, svezzato forse troppo presto; solo così può tentare di salvare quella minima parte di nucleo familiare che le è rimasta. Ma deve anche difendersi dai giudizi e dai rimproveri del pastore Manders, che la accusa di essere stata una donna fallimentare sia come moglie che come madre; il suo è il punto di vista dell’uomo di chiesa, che concepisce il matrimonio unicamente come un dovere cui adempiere e da mantenere per tutta la vita. Sono due figure che ricercano la sicurezza nei valori di cui sono portatori, basati gli uni su una morale di tipo religioso, gli altri sul concetto di rispettabilità. Eppure tutto è instabile: la forza della passione è distruttrice perché annienta la ragione, causando paradossali debolezze, come quella in cui sono caduti loro stessi anni prima, diventando amanti. Gli errori e le anomalie del passato subiscono un tentativo di soffocamento, ma è inevitabile, a un certo punto, che essi si riaffaccino in tutta la loro drammatica limpidezza. Allora, la signora Alving è costretta a rivivere l’orrore di una relazione illecita all’interno della propria casa: Osvald e la serva Regine sono lo specchio di quanto era avvenuto tanto tempo prima fra il capitano Alving e una domestica. Improvvisamente, l’intero sistema si fa sempre più precario, fino al crollo di ogni certezza. E alcuni errori commessi in passato sono irrimediabili: si consuma, così, nella più annichilente sconfitta, il tentativo della signora Alving di riavvicinarsi al figlio in modo paradossale, ristabilendo razionalmente con lui un legame ancestrale e istintivo.

Osvald non ascolta più la madre, non sente più niente: sta andando incontro a una degenerazione psichica che devasterà il suo corpo e la sua mente, riducendolo a larva umana. E mentre la madre cerca di riversare su di lui un vano affetto consolatorio, egli subisce il logorante tormento del dubbio sulla causa del suo male: è più inaccettabile ammettere di aver trovato la rovina eccedendo in tutto, oppure di essere tarato, fin dalla nascita, dalle colpe commesse dal padre? Osvald vede in Regine la sua unica fonte di salvezza perché è in grado di trasmettergli gioia di vivere, grazie alla sua freschezza giovanile così semplice e ingenua; egli, per non morire, può solo aggrapparsi alla vita, a un raggio di luce. E quel raggio di luce verrà alla fine, dopo interminabili ore di pioggia, e lo coglierà nel momento estremo della perdita di ogni impulso, di ogni energia. La madre rimane raggelata, mentre stringe nella mano una scatola di morfina, lasciando aperta una conclusione che può far riflettere sul significato di eutanasia: ultimo atto disperato d’amore verso chi non merita di vivere una non-vita, oppure fuga da qualcosa di scomodo e sconveniente? La difficoltà di interpretare ruoli così articolati consiste nel calibrare la forza della parola. Essendo un dramma privo di grandi azioni, la regista Cristina Pezzoli ha voluto concentrare l’attenzione sulla potenza espressiva dei dialoghi, ottenendo delle voci ben distinte e caratteristiche. Fin dalle prime battute, è Regine (Valentina Brusaferro) a emergere con un temperamento vivace e un tono di voce squillante, che contrastano con la monotona e deprimente atmosfera circostante. Ma la sua apparente ingenuità è sostituita, alla fine, da uno sdegno orgoglioso, quando la verità viene finalmente a galla e lei scopre di essere la figlia illegittima del capitano Alving.

Il suo presunto padre, Jakob Engstrand (Alvise Battain), incarna la rozzezza dell’uomo che risponde unicamente ai bisogni primari per la propria sussistenza e che non si nega i piaceri più bassi. È osservato con distacco dal raffinato mondo borghese, che la signora Alving (Patrizia Milani) cerca di proteggere da qualsiasi attacco esterno, imponendosi sulla scena con la maestosa figura di una donna sicura di sé; ma la sua determinazione comincia a vacillare non appena il passato fa capolino da una porta semiaperta. Allora, il ritmo cambia, i dialoghi con il pastore Manders (Carlo Simoni) si fanno più fitti e confidenziali, e si crea un’intimità segreta tra i due. La maestria dei due attori è ben evidente nel passaggio dai momenti di comunicazione più formale, a quelli di totale abbandono all’emotività, che corrispondono alla perdita di controllo della situazione. Ruolo fondamentale, a questo punto, diventa quello di Osvald (Fausto Paravidino), che regge per due ore la fatica, fisica e mentale, di interpretare la costante ebbrezza di un ragazzo ormai svuotato di tutto, privo di slanci vitali, che si trascina sulla scena con un’estenuante svogliatezza. I momenti di più alta intensità drammatica si hanno nel contatto con la madre, quando, in posizione fetale, si aggrappa al suo grembo, e, con un urlo straziante, confessa la propria imminente rovina. Alla fine, entrambi stesi a terra, ai piedi di un tronco bruciato, si ritrovano insieme, seppur nella loro solitudine, e a niente valgono più quei valori e quegli ideali finalizzati alla creazione di una buona immagine all’interno della società. Tutto si riduce alla dimensione individuale, e l’ultima dimostrazione di bravura degli attori si rivela nella capacità di trasmettere allo spettatore la stessa sensazione di vuoto opprimente a cui loro sono giunti. Viene meno tutto, persino la facoltà di ricordare il passato. Gli spettri svaniscono e non rimane più niente.

I cinque scatti inseriti nell’articolo sono stati gentilmente concessi dal Teatro Stabile di Torino – Fotografie di Tommaso Le Pera

Spettri

di Henrik Ibsen

Traduzione: Franco Perrelli – Elaborazione drammaturgica: Letizia Russo

Regia: Cristina Pezzoli – Scene e luci: Giacomo Andrico – Costumi: Rosanna Monti – Video: Mario Flandoli – Studio Due Effe

con Patrizia Milani, Carlo Simoni, Fausto Paravidino, Alvise Battain, Valentina Brusaferro

Produzione: Teatro Stabile di Bolzano

Torino, Teatro Carignano, dal 22 al 27 novembre 2011



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