Icaro

Da Paolo Statuti

Breughel il Vecchio: Paesaggio con la caduta di Icaro

  

Breughel il Vecchio

Quanti scrittori, poeti, pittori si sono ispirati alla leggenda di Dedalo e Icaro! Possiamo intenderla in vari modi: come nostalgia della terra natale, come esaltazione del talento e delle possibilità dell’uomo, come realizzazione dei propri sogni, o come fallimento di questi ultimi per eccesso di audacia o per troppa bramosia. Breughel il Vecchio nel suo celebre dipinto “Paesaggio con la caduta di Icaro”, e altri che si sono ispirati al suo quadro, mettono invece soprattutto in risalto l’indifferenza umana per le vicende altrui, per le disgrazie degli altri. I testi che pubblico oggi si inquadrano appunto in questa triste interpretazione, che non fa certo onore all’umanità.

Wystan Hugh Auden (1907-1973), poeta inglese.

Musée des Beaux Arts

…………………………….

Nell’Icaro di Breughel: come tutto distoglie

Tranquillamente dalla sciagura! L’aratore può

Aver sentito il tonfo, il grido soffocato,

Ma per lui non era importante; il sole illuminava

Come doveva le bianche gambe che nel verde mare

S’immergevano; e il costoso elegante veliero

Che doveva aver visto il ragazzo piombare dal cielo,

Doveva giungere alla meta e continuò a navigare.

(frammento tradotto da Paolo Statuti)

William Carlos Williams (1883-1963), poeta americano

Paesaggio con la caduta di Icaro

Secondo Breughel

quando Icaro cadde

era primavera

un contadino arava

il suo campo

tutto lo sfarzo

dell’anno era

desto vibrando

vicino

alla sponda del mare

così compresa

in se stessa

sudando al sole

che scioglieva

la cera delle ali

impercettibile

lontano dalla costa

ci fu

un tonfo del tutto inosservato

era

Icaro che annegava

(Traduzione di Paolo Statuti)

Il racconto che segue è tratto dalla mia antologia di racconti polacchi “Viaggio sulla cima della notte”, pubblicata nel 1988 da Editori Riuniti.

Jarosław Iwaszkiwewicz (1894-1980)

Icaro

C’è un quadro di Breughel intitolato Icaro. Guardando questo quadro, si scorge un contadino che ara la terra vicino al mare, un pastore che pasce indifferente il suo branco, un pescatore che estrae dal mare le sue lenze, una città tranquilla in lontananza. Il mare è solcato da un bastimento con le vele spiegate e sul ponte si vedono dei mercanti che parlano d’affari. In breve, osserviamo la vita con i suoi quotidiani affanni e il suo quotidiano cumulo di consuete occupazioni e preoccupazioni umane. Ma dov’è Icaro, dov’è colui che tentò di volare fino al sole? Solo esaminando attentamente il quadro scorgiamo in un punto del mare due gambe che sporgono dall’acqua e qualche piuma sospesa nell’aria, strappata dalla violenza della caduta alle ali ingegnosamente costruite. Poco prima Icaro è caduto. Il temerario che si era attaccato le ali – secondo la leggenda greca – si era sollevato in alto, così in alto da trovarsi vicino al sole. I raggi sciolsero la cera che fissava le file di penne alle ali, e il giovane era precipitato. La tragedia si era conclusa: annegava e scompariva nel mare, ma nessuno se ne accorgeva. Non il contadino che arava la terra, non il mercante che navigava lontano, non il pastore che guardava a bocca aperta il cielo. Nessuno aveva notato la morte di Icaro. Soltanto un poeta o un pittore aveva visto quella morte e l’aveva tramandata ai posteri.

Ricordo sempre questo quadro tutte le volte che penso a un particolare fatto della mia vita. Era il giugno del 1942 o del 1943. Una meravigliosa serata estiva era scesa su Varsavia, bagliori rosati gettavano ombre rabescate sui muri distrutti, e la travolgente fiumana di tutti quelli diretti a casa, che si affrettavano a prendere il tram prima del coprifuoco, mimetizzava con la sua massa di abiti civili le divise ormai rare a quell’ora. Guardando in quel momento le strade di Varsavia, animate e abbellite dal bel tempo di giugno, per un istante poteva sembrare che la città fosse libera dagli occupanti. Per un istante…

Mi trovavo all’angolo tra la Trębacka e Krakowskie Przedmieście, alla fermata del tram. I tram, scampanellando sonoramente, si susseguivano uno dietro l’altro con i loro scafi rossi lungo Krakowskie Przedmieście. La gente li prendeva d’assalto, restava appesa sui predellini, si aggrappava ai respingenti, a grappoli spenzolava in coda e sui fianchi. Di tanto in tanto passava lo «zero rosso» riservato solo ai tedeschi, e quindi semivuoto. Aspettai a lungo una vettura su cui fosse più facile salire, ma, quando finalmente giunse, preferii restare a terra. Improvvisamente avevo cominciato a prendere gusto a quella folla che mi circondava, incurante della mia esistenza. Davanti a me Mickiewicz si ergeva alto sul suo piedistallo; intorno al monumento i fiori malgrado tutto erano fioriti e profumavano, le automobili stridendo voltavano davanti alla chiesa dei Carmelitani, i ragazzetti vendevano i giornali, gridando ad alta voce, i venditori di sigarette e di dolci brulicavano davanti a una bottega scintillante, si udiva il fragore delle saracinesche abbassate e delle inferriate messe alle porte e alle finestre dei negozi; nel giardinetto con le panchine occupate da vecchi e giovani, cinguettavano i passeri, che affollavano anche gli esili alberelli: tutto questo si tuffava lentamente nell’azzurro crepuscolo della serata estiva. In quell’istante sentivo battere il cuore di Varsavia e senza volere mi trattenni fra tutte quelle persone, per restare ancora un po’ insieme ad esse e insieme ad esse godere di quella bella serata estiva.

Ad un tratto scorsi un ragazzo che, venendo dalla Bednarska, assai imprudentemente era sbucato da dietro un tram, che si era già messo in movimento e, fermatosi con la faccia alla strada e con le spalle alla folla in attesa sul salvagente, non distoglieva gli occhi dal libro assieme al quale era emerso dal crepuscolo che si andava ingrigendo. Poteva avere quindici, al massimo sedici anni. Leggendo, di tanto in tanto scuoteva la chioma bionda, scostando i capelli che gli cadevano sulla fronte. Un libro gli sporgeva da una tasca laterale, e reggeva l’altro ripiegato davanti agli occhi, non potendo, a quanto pare, distaccarsene. Probabilmente era riuscito a procurarselo un istante prima da un amico o in una biblioteca clandestina e, senza aspettare di ritornare a casa, voleva conoscerne il contenuto subito, sulla strada. Mi rincresceva di non vedere quale libro fosse, da lontano sembrava un manuale, ma forse nessun manuale può destare tanto interesse in un giovanetto. Forse erano poesie? Forse un libro di economia? Non so.

Il ragazzo si trattenne un po’ sul salvagente, immerso nella lettura. Non faceva caso alle spinte, alla folla che si accalcava sulle vetture. Alcune scie rosse gli passarono dietro, continuava a tenere gli occhi incollati al libro. E sempre con quel libro sotto il naso – forse perché si era stancato delle spinte e delle grida che gli risonavano intorno, o forse perché di colpo aveva sentito nel subconscio il bisogno di affrettarsi a casa – lo vidi scendere dal salvagente, dritto sotto un’automobile che sopraggiungeva.

Risuonò lo stridio dei freni premuti al massimo e il sibilo delle gomme sull’asfalto. L’automobile per evitare di investire il ragazzo aveva sbandato violentemente e si era fermata proprio all’angolo della Trębacka. Con sgomento notai che era un furgone della Gestapo. Il giovanetto con il libro cercò di allontanarsi dal veicolo. Ma in quello stesso istante si aprirono gli sportelli sul retro del furgone e due individui con l’elmetto saltarono a terra. Si accostarono al ragazzo. Uno di essi gridava con voce cavernosa, l’altro facendo roteare il braccio lo invitò beffardamente a salire.

Ancora oggi vedo quel giovanetto in piedi vicino agli sportelli del furgone, pallido e confuso…Che cercava di difendersi scuotendo ingenuamente la testa in segno di diniego, come un bambino che promette di non farlo più…«Io non ho fatto niente – sembrava dire – io ho solo…» Mostrava il libro come unica causa della sua sbadataggine. Come se gli fosse stato possibile spiegare qualcosa. Non voleva salire sul furgone per un estremo impulso della sua vita ormai condannata.

Uno dei gendarmi gli chiese i documenti, gli strappò di mano la carta d’identità e lo spinse violentemente all’interno. L’altro lo aiutò, il ragazzo salì, seguito dagli uomini della Gestapo; gli sportelli sbatterono e il furgone, partito di scatto, si diresse a tutta velocità verso viale Szuch…

Scomparve dalla mia vista. Mi guardai intorno cercando comprensione in qualcuno, compassione per quello che era successo. Quel giovane con il libro era pur scomparso. Ma con sommo stupore notai che nessuno aveva fatto caso a quanto era accaduto. Tutto ciò che ho descritto si era svolto così di colpo, così fulmineamente, ognuno della folla sulla strada era così preso dalla sua fretta, che il rapimento del giovane era passato inosservato. Le signore che mi stavano accanto discutevano quale tram fosse meglio prendere, due gentiluomini dietro la colonnina della fermata si accesero una sigaretta, una donnetta con la cesta posata vicino al muro ripeteva senza sosta: «Limoni, limoni, limoni belli», come un esorcismo buddista, e altri ragazzi attraversavano di corsa la strada inseguendo le vetture che si allontanavano, rischiando di finire sotto altre automobili… Mickiewicz se ne stava tranquillo, i fiori profumavano, le piccole betulle e i sorbi presso il monumento erano mossi da un leggero venticello, la sparizione di quel giovane non significava nulla per nessuno. Soltanto io mi ero accorto che Icaro era annegato.

Restai ancora lì a lungo aspettando che la folla si diradasse. Pensavo che forse «Michaś» – così lo chiamavo nella mia mente – sarebbe tornato. Mi immaginavo la sua casa, i genitori che aspettavano il suo ritorno, la madre che gli preparava la cena, e non voleva entrarmi in testa che essi non avrebbero mai saputo in che modo fosse scomparso il loro figlio. Non potevo supporre, conoscendo le usanze dei nostri occupanti, che sarebbe riuscito a sfuggire alle loro grinfie. Ed era caduto così stupidamente! La crudeltà insensata di quel rapimento mi commosse nel profondo dell’animo e continua a commuovermi ancora oggi.

Coloro che sono morti combattendo, coloro che sapevano per cosa morivano, hanno avuto forse il conforto di sapere che la loro morte aveva un senso. Ma quanti furono quelli che, come il mio Icaro, annegarono nel mare della dimenticanza per un motivo crudele nella sua insensatezza.

Era calata la sera, la città si era addormentata di un sonno febbricitante, malsano…Finalmente mi mossi dalla colonnina della fermata, superai il monumento di Mickiewicz, andai a casa a piedi… Ma nella mente continuava a tormentarmi insistente l’immagine di Michaś che scuoteva la testa, come se dicesse: «No, no, è tutta colpa del libro…d’ora in poi farò attenzione…».

(Versione di Paolo Statuti)

(C) by Paolo Statuti



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