Ero la via di mezzo tra la famiglia numerosa e il figlio unico. Mio padre aveva ben deciso di farne cinque di figli, per poi andarsene via in pochi giorni, una malattia brutta che in famiglia non si può più neppure nominare se lo portò via. Mia madre ogni mattina raccontava di quanto era bello e alto suo marito, anche se guardando le foto e le facce dei miei fratelli non ritrovavo tutta quella poesia che veniva fuori dalle sue parole. Quattro bravi studenti e una bellissima sorellina, capelli ricci e lucenti come oro, guance gentilissime e delle sopracciglia disegnate dal migliore dei pittori, identiche a quelle della donna che l’aveva messa al mondo. Io e miei fratelli eravamo nati uno dopo l’altro, a distanza di un anno l’uno dall’altro; nonna ogni domenica ripeteva che se la malattia non si fosse portato via nostro padre, nostra madre ne avrebbe partorito altri dieci, e forse io avrei più fratelli anche di Mario.
Un sabato come tutti gli altri, io Gipi e Mario eravamo al fiume. Mentre Gipi produceva delle trombette con le erbacce ancora verdi, il gesto più agreste che gli riuscisse, Mario raccontava, seduto sul bordo del ponte, di quando con i fratelli si gettavano da lì, lasciandosi andare all’indietro e facendosi trascinare per qualche metro dalla corrente. Io il fiume preferivo sempre guardarlo da lontano, almeno a cinque metri dalla riva, che mia madre di disgrazie ne aveva raccolte già tante, gli sarei mancato solo io da piangere.
E così ci aveva pensato bene Mario a far piangere la sua famiglia, lasciandosi andare all’indietro, come con i fratelli. Io e Gipi avevamo sentito solo il rumore, il rumore dell’acqua squarciata.
La corrente se lo era trascinato via fino alle pianure del campidano, chissà dove sarebbe voluto arrivare Mario, forse sino al mare. Quando lo hanno ritrovato sembrava addormentato sul dorso del fiume, con il suo solito sorriso stampato in faccia. Non rispondeva più.
I medici e i giornali i giorni seguenti si contendevano la diagnosi, ‘ha battuto la testa’, ‘ha bevuto troppa acqua’ o ancora ‘troppi traumi per sopravvivere’. Il paese sembrava uno show televisivo, e per trenta giorni, nei vicoli, non si sentiva altro se non il nome di Mario.
Gipi intanto non parlava quasi più, mi guardava e piangeva, tutti i giorni.
Eravamo Io Gipi e Mario solo la domenica, quando alle 9 del mattino Io e Gipi scavalcavamo il cancello verde arrugginito del cimitero e ci mettevamo uno di fronte all’altro sulla lapide ancora fredda di Mario.
‘Mario sicuramente ci ascolta, sta qualche metro sotto di noi, non parla, ma ci ascolta.’ Così continuava a ripetere Gipi per tutta la giornata.
Poi quando il sole diventava freddo e iniziava a sparire dietro i monti, io e Gipi andavamo via. Scavalcavamo il cancello verde arrugginito e ci fermavamo a pisciare qualche metro più avanti, immersi nel silenzio gelido di quel posto. Mario era il più bravo a disegnare.