Un film insolito, coinvolgente, bellissimo, è “Ida” del regista polacco Pawel Pawlikowski. La storia, in sé facile da riassumere, si svolge all’inizio degli anni ’60 nella Polonia intristita dal comunismo, ma ansiosa di vita e di libertà.
Trama [attenzione, spoiler!]
Anna è una giovane novizia in attesa di pronunciare i voti definitivi. Prima di tale passo definitivo, la Madre Superiora del convento, in cui ella vive fin da quando era piccola, le impone di recarsi a Varsavia dove vive l’unica parente della ragazza, la zia materna Wanda Gruz, la quale, in tutti gli anni trascorsi, non si è mai messa in contatto con lei. Anna obbedisce, sia pure a malincuore, e, giunta a casa della zia, si trova di fronte ad una signora di mezza età ancora attraente, elegante e, in apparenza, assai disinvolta. Ma sola e disillusa.
In precedenza ella era stata un’illustre esponente del regime quale magistrato giudicante in importanti processi politici e, negli anni giovanili, aveva combattuto nella Resistenza antinazista.
Esauriti brevi convenevoli di rito, Anna viene a sapere di essere ebrea: il suo vero nome è Ida; la madre, Rouzha, sorella minore di Wanda, aveva sposato un certo Lebenstein.
Durante la guerra, i genitori e la piccola, per sfuggire ai nazisti, si erano rifugiati in campagna, nella fattoria di famiglia, dove, per qualche tempo, alcuni contadini li avevano nascosti e “protetti”. Con loro c’era pure il figlioletto di Wanda, Tadeusz, affidato dalla madre, che era andata a combattere coi partigiani comunisti. Poi i Lebenstein e il piccolo erano stati uccisi in circostanze mai chiarite. E quella bambina bionda di pochi anni, ora futura suora, come mai era sopravvissuta?
Dopo un’iniziale diffidenza nasce tra le due donne, all’apparenza così diverse, una certa curiosità dell’una per l’altra, che si trasforma pian piano in vero affetto.
La prima, complice la notevole somiglianza fisica, rivede nella seconda la sorella tanto amata, creatura pura ed innocente alla quale il destino aveva riservato una sorte tragica; e magari la figlia che non ha mai avuto.
Per Ida la zia non rappresenta solo l’unico legame con le proprie radici, ma anche una persona tormentata e desiderosa di confidarsi, oppressa da una profonda sofferenza interiore, che tenta invano di nascondere fumando una sigaretta dopo l’altra, consumando alcoolici e conducendo una vita sessuale all’insegna della più totale libertà.
“Chi sei tu, veramente?” le domanda Ida “Una donna……che ha condannato a morte degli uomini” è la disperata risposta.
Ella aveva cercato di compensare la “colpa” della sua origine ebraica -elemento sempre pericoloso- con la spietata attività politica svolta nel periodo dello stalinismo. Ma a quale prezzo?
A bordo di una vecchia utilitaria, zia e nipote intraprendono un viaggio per scoprire la verità sulle circostanze della morte dei congiunti. Verranno a scoprire spaventosi segreti, ma pure ritroveranno i resti dei familiari che seppelliranno in un vecchio cimitero ebraico a Lublino.
In quei giorni Ida sperimenta anche l’ordinaria vita quotidiana, così diversa dall’esistenza scandita da regole ferree cui era abituata al convento; le piccole gioie e le meschinità dei suoi simili.
Ritorna quindi all’ambiente rassicurante dal quale era partita, ma, non appena viene a sapere che Wanda, oppressa dai suoi fantasmi, si è suicidata buttandosi dalla finestra di casa, si trasferisce nell’appartamento di lei.
Lasciata la veste monacale, il tentativo, sia pur appena abbozzato, di identificazione con la personalità della zia, e un breve rapporto amoroso con un giovane suonatore di jazz non le danno la ricercata serenità.
Il film termina con l’immagine di Ida la quale, di nuovo chiusa nel suo abito di novizia, percorre a piedi una lunga strada.
E’ il ritorno, definitivo, al convento perché finalmente ella ha capito qual è la sua vera vocazione?
Sembrerebbe così. Ma…incrocia alcune automobili…Il percorso non sembra essere la via dritta, lineare e solitaria cui era abituata.
E’ forse l’inizio di un destino nuovo e imprevedibile, che nulla ha a che vedere nemmeno con l’esistenza normale -o quasi- prospettatale dal suo innamorato, apparsa ben presto a lei vuota e limitante?
Ogni spettatore darà la sua risposta.
Un film per l’Europa di oggi
Primo film polacco di Pawel Pawlikowski (vissuto a lungo lontano dal suo Paese), vincitore del London Film Festival e Premio Fipresci al Toronto International Film, la pellicola -della durata di soli ottanta minuti- è notevole da molteplici punti di vista.
Anzitutto l’ambientazione. Il regista si avvale di un suggestivo bianco e nero, in grado di far risaltare appieno le immagini e i primi piani: la neve, i volti, il bucato steso mosso dal vento, la sensazione di solitudine e di immensità che Wanda e Ida colgono durante il loro viaggio. Un cimitero ebraico in rovina….
Perfetta la ricostruzione della Polonia in quegli anni: oppressa da uno Stato di polizia, ma anche avida di vita, di luce, dove, pur non senza rischi, riuscivano a giungere il rock, il jazz, la moda occidentale.
Le musiche moderne -come quel motivetto, “Oh Jimmy Joe….”, ripetuto in modo cantilenante, quasi ossessivo, più volte- si alternano a Mozart delle scene più intense e al silenzio assoluto di certi istanti.
Le protagoniste sono figure a tutto tondo, in grado di travalicare la rigidità istituzionale in cui sono inserite. Wanda è Agata Kulesza, attrice molto nota in Patria, anche come interprete teatrale; sa esprimere la giusta sintesi tra disperazione, curiosità, rimpianto per la passata gloria politica e insieme rimorso insopportabile per le azioni commesse. Dolore infinito di madre. C’è in lei un forte desiderio di Spirito, di pace interiore. Basti pensare alle considerazioni sulla figura di Cristo, dapprima percepite da Ida come un’indebita intromissione nel suo “territorio”: “Il tuo Gesù” fa osservare alla nipote “non stava chino sui libri, ma andava tra la gente…….Il tuo Gesù adorava quelle come me”. Desiderio di autenticità. La scena delle esequie della “compagna Gruz” esprime la distanza tra l’universo del Partito e l’anima, il cuore della persona che si sta commemorando in una vuota cerimonia che è pura ritualità. Non a caso Ida vi assiste, ma in disparte, come un’estranea.
La giovane Agata Trzebuchowska non è un’attrice professionista, bensì studentessa di filosofia dell’arte, incontrata dal regista in un bar. Non aveva mai recitato e (probabilmente) non reciterà più.
Si tratta dell’antisemitismo, per così dire, comune, espresso dalle popolazioni “gentili” che avevano vissuto accanto agli Ebrei per secoli. Sotto l’orrifico mantello protettivo della Shoah si sono consumati, durante e dopo la Seconda Guerra Mondiale, specie nell’Est Europa, tremendi delitti e atroci “pogromi” dei quali solo da pochi anni si comincia a parlare.
E’ l’odio antico che uccide, oltre ad un bambino bruno, una coppia di adulti, col pretesto di impossessarsi della loro casa -ma non si tratta di volgare omicidio a scopo di rapina, c’è ben altro in gioco-, ma ne risparmia la figlioletta dai capelli color grano (particolare di rilievo) affidandola al parroco del villaggio: così la macchia della sua nascita sarà cancellata. Ma la Storia, al momento opportuno, presenta i suoi conti.