Ida Vallerugo, MISTRAL, Il ponte del sale 2011
Valga questo frammento di discorso in sintesi:
“Mistral non si presta a definizioni univoche, è un’opera che attinge alle radici segrete della vita – e della poesia – e indaga il mistero della morte. Conosce la vastità del mare gli anfratti bui delle coscienze, ed è sfiorato da un ignoto “Viaggiatore” che si rivela a noi come un “assenza” desiderata, come una figura traboccante di significati anche metafisici per l’attesa, i dubbi e gli interrogativi inascoltati dell’io”.
Detto questo, il discorso, certo, non può esaurirsi nell’operazione chirurgica del critico che scrolla fili più o meno intricati – e intriganti – di un tessuto testuale; anche perché questa poesia si pone nella chiarezza della fruizione, nell’avvicendarsi di piani in cui il simbolo è sempre immagine vivificata dall’esperienza: esperienze di vita e di lettura, incarnate, appunto, nella figura del viaggiatore che coniuga e avvicina le improvvise parusie: piccole luci che si accendono improvvisamente davanti alla nostra ignoranza.
Non si tratta di un vento qualsiasi, ma del mistral della Provenza; l’improvviso aprirsi del cuore e della mente davanti alle cose, comprese misteriosamente perché già ubicate in noi.
Siccome questa comprensione non avviene in modo razionale ma intuitiva e sincretistica, capace, cioè di avvicinare piani di significato apparentemente divergenti o lontani, ecco che essa si esprime con immagini, scene significative di apparizioni.
Questo rapporto con l’apparire, è il tenersi dentro la sostanza della luce stessa, quindi delle figure – dipinte o reali non importa – in quanto tutte contenute dentro la vita, quello stato, cioè, in cui nemmeno Orfeo può rinunciare al dialogo anche quando la sua discesa fosse destinata al fallimento. La vita, si potrebbe dire, è la luce stessa che contiene in sé l’ombra, la quale non si svela se non nei momenti in cui la luce si scosta.
Gli avvenimenti che vale la pena vivere, sono presentati come dallo scostarsi delle tende di questo sipario/mistral, che ha la funzione appunto, di far vedere attraverso la forza improvvisa, non preparata e non prevista, del suo accadere.
Ecco allora che il progetto dell’opera non si inquadra in un resoconto logicamente concatenato di avvenimenti – inesatto mi sembra utilizzare il termine poema – ma di improvvise apparizioni di forme evocative che spesso portano con sé il fascino e la sensualità dei segni, anche attraverso l’utilizzo di una civile ironia che smonta la tragicità della maschera, del suo nascondimento.
Due lingue, due terre. La lingua si configura come la promesa di un’altra lingua nascosta o distante; diventa, per sincretismo, provenzal/friulano, possibilità di far specchiare le proprie maschere in altre maschere e per trovare quella fratellanza che accomuna i simboli degli occhi, i fratelli nello stesso dolore.
Ma questa lingua è anche due terre. La prima, la Provenza, in un doppio significato di concretissima immagine della luce e di mente; l’altra, il Friuli, nel microcontesto del paese d’origine, sorella dell’altra forse perché accomunata dallo stesso destino di scomparsa, di cambiamento e metamorfosi.
Parrebbe, dunque, la Provenza, terra adottiva per concordanza di segni. Là dove Vincent dipinge cipressi, la poetessa evoca cipressi/spettri: altro senso dell’ ”amor che tutto move”, mostrando come la vera poesia abiti un doppio binario sguardo/mente, sia stilnovismo di una bellezza rivelata ma fuligginosa, scossa dalla forza evocatrice della parola, (perché, forse, proprio questo è il mistral: “Il vento vi muove/come amore, dicono, il mondo muove”, p. 25).
Così, mentre in Provenza tutto è sconquassato, cambia forma – e forse è proprio il dato pittorico della mano di Vincent a cui la poetessa fa riferimento, piuttosto che quello toponomastico e topografico – nell’altra terra, la sua, quella dei ricordi e degli archetipi, il dato eccessivo, in movimento, è dato dalla presenza del nero ed è sedato, per esempio, nell’immagine dell’occhio del cervo assalito dai cani, un mosaico realizzato dal padre in cui il dato visivo, appunto, è fermato alla vista: “una pietra la si guarda in piena luce”, p.201, in opposizione al soffiare, “immaginare normale ciò che nel vento si torce”, p. 47.
Mentre stare nel vento provoca quasi sempre delle apparizioni, i luoghi dell’infanzia sono i quieti antri di apparizioni di dei e morti, di ciò che resta della Storia, il senso ultimo della loro e della nostra scomparsa.
Dittico, anche – e non in ultima istanza – del regno dei vivi e del regno dei morti che nell’ultima parte del libro assiepano i versi come presenze ingombranti che si fermano sulla soglia delle parole per ricordare ai vivi la loro prossima sostanza di ombre.
Così, nel riferimento compositivo al Ritsos di “Pietre, Ripetizioni, Sbarre”, e delle figure dei grandi monologhi teatrali, la poesia di Ida Vallerugo rivela la sua vocazione indagatrice del senso dei gesti laddove questi, ripetendosi, trattengono l’assenza di tutti.
In questo modo possiamo riconoscerci nelle ripetizioni, nel dolore lontano di una voce che grida, come nello sguardo di una grande madre che ci guarda senza giudicare. Sono immagini statiche che colpiscono gli occhi e che, movendosi appena come il fruscio di una tenda nell’ombra, ancora ripetono un movimento antico di secoli; una voce.
Sebastiano Aglieco