Idelfonso Nieri, Il gomitolo della vita

Da Paolorossi

Questa novella qui non è di quelle nostrali, ma me la contò un lucchese che era stato non so mai quanti anni in America a Nuovajorche, e precisamente a Broccolino, diceva lui; e l’aveva imparata da un prete inglese d’Inghilterra, che spesso andava a veglia in casa sua. Quel lucchese, più che altro, me l’abbozzò, e io alla meglio e alla peggio l’ho rifatta così:

Famiglia provincia di Lucca inizi del 900 – Foto tratta da “Come eravamo-Lucca” – Ed. Il Tirreno

C’era una volta un signore e una signora molto ricchi, moglie e marito, che avevano un bambino, quello solo. Figuratevi se gli volevan bene e se ci badavano! Non avevan altri pensieri. Era pur bello! Bianco e rosso in viso, biondo e ricciutino, con due begli occhi neri che gli ridevano prima della bocca; e veniva su come un tallo di rosa. Ci avevano lì accanto alla casa, al palazzo, via, un bellissimo giardino, dove ci erano tutti i divertimenti; e il più stava lì, accompagnato e anco solo, perché dei pericoli non ce n’era. Però quando fu cresciutino, per le sue ore, lo chiamavano in casa, e gl’insegnavano a leggere e a scrivere, e gli avevan fatto venire per infino delle balie forestiere, e dei maestri in casa per istruirlo sempre meglio. Ma come gli pareva duro a lui di dover lasciare i suoi ninnoli e i suoi trastulli, per andare a far le aste e gli oncini colla penna! Quando sentiva la voce di quelli che lo chiamavano, o della mamma, o di chi altri si fosse, diceva:
«Se sapessi un po’ già fare a leggere e a scrivere! Ecco qui, ora potrei starmene dove mi pare, e invece mi tocca andare in casa al tavolino! Tutti mi comandano, bisogna che stia sotto tutti; anche sotto i servitori. Fossi un po’ già come il tale, che legge e scrive ammodo, come mi vorrei divertire di più!»

Ora un giorno successe che l’avevano già chiamato due volte, e lui non si sapeva risolvere a staccarsi da un bel cavallino di legno, e rimuginava fra sè e sè di quei pensieri lì: quando a un tratto gli apparve un genio, un angelo, via, rilucente, bellissimo, con certe ali d’oro… bello, bello, bello! Gli si presentò davanti e gli disse:
«Bambino, io sono il tuo genio; ho sentito i tuoi lamenti, e vedo i tuoi pensieri, e conosco i tuoi desideri, e perciò sono venuto a trovarti. Ti rincresce di essere così piccino, e vorresti essere più grandicello, e saper già leggere e scrivere, per baloccarti quanto ti piace. Or bene, starami a sentire, e fai bene attenzione. Guarda (e intanto gli mostrò un gomitolo di filo) questo è il filo della tua vita. Se tu lo sdipani, se tu tiri e sfai il gomitolo, la tua vita passa e tu arrivi subito a tutti i punti che tu vuoi. Se ti viene a fastidio lo stato presente, e tu tira il filo, chè muterai. Bada però, il fine del filo è il fine della tua vita. Hai inteso? Addio».

Lo baciò in sulla fronte e scomparve. Il bimbo era rimasto lì ammirato, con certi occhioni spalancati a vedere quel bellissimo angelo, ma non aveva avuto paura niente. Quello che gli aveva detto il suo genio, tutto tutto non l’aveva inteso, ma però aveva capito benissimo che quando era noiato dello stato presente, se tirava il filo, sarebbe passato subito. Restò lì pensieroso un pezzo, poi andò a rimpiattare il gomitolo, e corse dove l’avevano chiamato. Il giorno dopo eccoci alle solite: divertimento e poi studio: lui si annoiava, e disse fra sè:
«Che sarebbe se sfacessi un po’ poino di gomitolo?!» Va, tira un poco il filo, ed eccotelo su un giovanottino ammodo e verso; coi calzoncini sempre corti, ma leggeva e scriveva puntualmente e bene. Com’era contento! Almeno eran finiti quei bastoni e quei ganci e quegli scarabocchi di prima! Gli pareva d’essere un principino; anco lui cominciava ad avere un po’ di voce in capitolo; i servitori lo chiamavano il signorino, e principiavano a rigarci diritti. Però il padre e la madre pensavano che leggere e scrivere solamente è troppo poco; una professione, giacché i mezzi c’erano, doveva pigliarla anche lui. Non si può mai sapere; muta così facile la fortuna di questo mondo! oggi siamo in cima alla ruota, e di qui a un anno si può essere in fondo. Perciò lo vollero mandare alle scuole pubbliche. Quella fu un’altra noia! Dopo un poco di tempo non ci si poteva più vedere nè patire. Diceva: «Fossi come il tale! Potessi andare anch’io all’Università! Che gusto! Esser libero di me; levarmi questi servitori di dietro; non aver più sempre addosso gli occhi di babbo e di mamma! E poi questi calzoncini corti! Buon per quelli che portano i calzoni lunghi! E questi benedetti principi della grammatica…!»

Va al gomitolo, tira, e si trova un giovanottino di sedici o diciassette anni con certi baffetti che spuntavano allora, svelto e paino, colla sua spagnoletta in bocca e la mazzetta in mano, e tutti lo ammiravano. Uh! che piacere potere andar solo fuori da tutte le parti, franco e spartito, senza tante guardie! gli pareva un incanto, un paradiso! E che figura facevano ai suoi occhi quelle giovinette, quelle signorine di quattordici e quindici anni che gli fiorivan d’intorno come tanti bottoncini di rosa! Non vedeva altro, non sentiva altro, non pensava a nessuna altra cosa fuori che a loro. Se avesse potuto fare all’amore con una, gli sarebbe parso di toccare il cielo con un dito:
«Quanti dei miei compagni hanno un’amante, e io no! Come sono felici, e io che ore triste e malinconiche passo!»

Torna al gomitolo e con due o tre giri che sfa, ha subito quello che brama. Una bellissima ragazzina della città, il più bel fiore di quel giardino, era la sua cara amante, innamorata di lui e lui di lei. Che momenti furono quelli per lui le prime volte che si trovò vicino a lei, e si parlarono d’amore le prime volte! Che occhiatine tenere! Che parole dolci! Se l’avesse potuta sposare lì sull’atto, gli pareva che il paradiso non ci sarebbe stato per nulla. Ma i suoi non erano anche contenti; bisognava finire gli studî, e diventare uomo. Quelle erano ore di pena e di fastidio lì sulle panche della scuola con quei libracci davanti, non terminavan mai; e quando gli entrava nell’anima lo spasimo della passione, gli parevano il principio dell’eternità! Non potendo più resistere, tirò il filo: l’Università era finita, e lui aveva sposato la sua cara amante. La contentezza, la beatitudine di quell’uomo non si dice a parole! I due sposi si adoravano; non potevano stare una mezz’ora lontani l’uno dall’altro, e sempre facevano dei castelli in aria sulla loro vita, e sulla loro casa, e sulla loro famiglia; e subito cominciarono a dire:
«Avessimo un po’ anche noi un bel figliolino come tanti altri! Come mi parrebbe d’esser felice con una nostra creaturina fra le braccia! Che gioia! vedere un nostro bimbino che ride nella culla!»

Una tirata di filo, ed ecco si trova a essere padre del più bel bambolino che si potesse vedere con due occhi della fronte! Che allegria! Quante carezze! Quanti baci! Erano matti dalla consolazione! Ma uno solo è troppo poco! Chi n’ha uno non n’ha nessuno. Stavano sempre in paura che da un momento all’altro gli dovesse mancare. I bimbi sono come i fiori: ora sono belli freschi e fra poco appassiscono e muoiono. Tira un altro poco di gomitolo, e si vedono tre o quattro folletti di figliuoli saltellare dintorno: chi strilla, chi ride, chi fa le mattie; e poi la casa sempre sottosopra, sempre tutta un laberinto.
«Ah! se fossero un po’ tutti sbozzolati, e tutti belli e rallevatini, senza tanti pensieri di pericoli! Come bisogna star sempre col cuore diacciato con questi frullini! E poi non c’è da tenere nulla ammodo».

Va al gomitolo, e in un batter d’occhio sono tutti grandicelli tanti ometti e ragazzine per benino. Con che occhi li guardavano il padre e la madre quando si vedevano que’ bellissimi figliuoli dintorno! Poi pensavano e dicevano:
«Che contentezza se questi figliuoli fossero collocati! Si sa, la vita e la morte sono nelle mani di Dio. A un caso di noi, poveri i nostri figliuoli! Specialmente quelle ragazze. Le ragazze sole per il mondo è sempre una gran disgrazia».

Va al solito filo, e subito quei figliuoli chi era avvocato, chi dottore; e le fanciulle tutte maritate in una condizione da pari loro. Quello fa un vero giubbilo per il padre e per la madre; ma nel vedersi rimasti lì soli si annoiavano.
«Se ci fosse almeno qualche nipotino! Ci servirebbe di spasso in questa solitudine. Così pare d’essere in un deserto».

Tira il filo, e il nipotino desiderato non si fece aspettare, anzi due o tre, e quello fu un grandissimo sollievo per il nonno. Ma intanto nel voltarsi gli venne fatto di guardarsi nello specchio, e si vide tutta la barba e tutti i capelli bianchi. A mala pena si era accorto di averci qualche filo brinato. Torna a vedere il gomitolo, e era piccino piccino, e quasi agli sgoccioli. Allora lo mise sotto chiave e lo teneva riguardato; ma era in fondo e dopo pochissimo tempo si fini da sè, e anche lui terminò di vivere.

Famiglia provincia di Lucca inizi del 900 – Foto tratta da “Come eravamo-Lucca” – Ed. Il Tirreno

Indovinate un po’ quanto era campato? Neanche bene bene un mese, neanche trenta giorni!!

E quel ministro che contava la novella diceva: Sorte e fortuna che chi comanda ci dà retta poche volte, quando facciamo tanti desideri, e gli rivolgiamo tante preghiere, se no ci ammazzeremmo da noi, lì tun tun, ite e venite, perchè coi desideri ci portiamo sempre avanti, e vorremmo veder subito finito il giorno, il mese e l’anno, per goder subito quel piacere che ci apparisce lontano. E poi ne ricavava anche un altro discorso, e era questo: che la vita dell’uomo, sia lunga quanto si vuole e sia felice come può essere, se si mette insieme tutto il tempo che realmente si gode, un’ora qua, una mezz’ora là, un giorno qui, e un altro mezzo giorno più giù, e se ne fa tutta una somma, si verrà giusto a formare una trentina di giorni, e neanche tanti.

Ecco quello che si gode!

Da un desiderio passiamo a un altro, senz’essere mai contenti del tutto, e così da uno ad un altro, da uno a un altro, ci troviamo alla morte senza sapere come ci siamo arrivati, E quel ministro fini con queste parole:
«Volete passare il meno peggio questi quattro giorni che si sta nel mondo? Abbiate meno desideri che sia possibile, e su que’ pochi non vi ci fissate tanto da farvene una lima che vi roda dentro continuamente».

( Idelfonso Nieri, Il gomitolo della vita, tratto da “Cento racconti popolari lucchesi”, 1908 )